Due o tre cose bisogna pur dirle sull’ecomostro (dimenticato) di Scampia tornato a far parlare di sé dopo la tragedia di lunedì sera 22 luglio che ha sconquassato l’Italia (due vittime, 13 feriti, 800 sfollati, mille polemiche). Diciamo le cose come stanno.
Lo ha scritto anche il New York Times: ”il palazzo più brutto del mondo“. Modello fallito. Il progetto nasceva da una idea sociale alla Le Corbusier, una forma di aggregazione e democrazia. Idee del 1962 (anno di costruzione delle Vele, inaugurate nel 1975). Si diceva all’epoca: le Vele sono la “casa di tutti”. Bene. Sono invece diventate un ghetto della malavita; simbolo di degrado, delinquenza, menefreghismo, illegalità.
Con centinaia di poveretti accatastati in pochi metri quadrati, fra cemento armato a vista, infiltrazioni, cavi arrugginiti, pianerottoli scrostati, ballatoi simil carcere. Sette edifici tutti così. Quattro sono già stati abbattuti, due sono in lista di attesa ed uno, così dicono, “sarà rigenerato”. Campa cavallo.
Le sette Vele di Scampia (quartiere di 100 mila abitanti, il doppio di quelli previsti dal piano urbanistico) dovevano essere una macchina abitativa autosufficiente – una città in miniatura – con un centro comunitario alla Walter Gropius (l’architetto e urbanista tedesco fondatore del Bauhaus che diceva “la forma segue la funzione”), lo spazio giochi per bambini, negozi di alimentari, la biblioteca. Flop totale. Niente di tutto questo è stato realizzato. Le Vele sono invece diventate un ecomostro, un inferno abitativo. Scampia è diventato un quartiere-ghetto.
Poche storie. Con i ballatoi esposti alle intemperie, infradiciati, il crollo era inevitabile. Gli abitanti lo hanno detto: ”Era solo questione di tempo, prima o poi doveva succedere“. Ed è puntualmente successo. Sono stati stanziati 159 milioni col Pnrr. Ma chi scommette sulla riqualificazione dopo l’ultimo disastro? I ghetti non funzionano.