Il premierato dovrebbe rimediare alla instabilità governativa italiana ma in realtà è un rimedio peggiore dei male. Giovanni Valentini sul Fatto Quotidiano ha inquadrato la proposta di legge sul premierato, a firma Meloni- Casellati, nella prospettiva storica da cui le due promotrici traggono ispirazione. L’articolo del giornale si intitola “Imperatore, anagramma del premierato di Meloni”.
Lo riproponiamo qui sono nella sua interezza per concessione dell’autore.
Resta senza risposta l’interrogativo che in realtà pochi si pongono, non tanto sul cui prodest, che è evidente, quanto sul cui nocet. L’impressione è che il vero bersaglio di Giorgia Meloni siano gli altri due partiti che, oltre a FdI la tengono al governo: Lega e Forza Italia. Con una legge come quella sul premierato il loro peso sarebbe ridotto a quello di semplici portatori d’acqua cioè zero.
Questo l’editoriale di Giovanni Valentini.
Nella sala-parto del premierato, Giorgia Meloni si comporta come il medico che azzecca la diagnosi e sbaglia la prognosi. Individua la malattia, ma non indica la cura giusta. E così prescrive una terapia inappropriata, anzi pericolosa o addirittura dannosa. A un malato di polmonite, assegna un farmaco anticancro o un ciclo di chemioterapia che può stroncare il paziente. Se il malato è il sistema istituzionale italiano, lei rischia di spedirlo all’altro mondo. Se il malato è la democrazia italiana, lei rischia di decretarne la fine.
Ha senz’altro ragione la premier a dire che il problema principale della nostra vita politica e istituzionale è l’instabilità dei governi: 68 in 76 anni di Repubblica, dal 1943 a oggi, con una media di appena un anno e quattro mesi. E non è certamente la prima a scoprirlo.
Quando ebbe inizio negli anni Novanta la stagione referendaria, l’obiettivo di chi proponeva di sostituire il sistema elettorale proporzionale con quello maggioritario era proprio quello di favorire la coesione delle maggioranze parlamentari e la cosiddetta governabilità, vale a dire la stabilità dei rispettivi governi.
A questo mirava la legge elettorale denominata Mattarellum, dal nome dell’attuale presidente della Repubblica, che assegnava il 75 per cento dei seggi parlamentari con il sistema maggioritario e il restante 25 per cento attraverso un complesso meccanismo proporzionale.
Quella legge innescò il bipolarismo, avviando l’alternanza fra centrodestra e centrosinistra: governo Berlusconi I (1994-95), governo Dini (1995-96), governo Prodi(1996-98), governi D’Alema I e II (1998-99 e 1999-2000), governo Amato II (2000-2001).
L’ultima volta che gli italiani votarono con il Mattarellum fu nel 2001. Da allora, nell’arco di vent’anni, siamo andati cinque volte alle urne con tre diverse leggi elettorali: prima con il famigerato Porcellum, congegnato dal leghista Calderoli (2006, 2008, 2013); poi nel 2018 e nel 2022 con l’infausto Rosatellum e l’attuale Rosatellum-bis, dal nome del suo relatore Ettore Rosato (un transfuga renziano ex Pd, passato a Italia Viva e ora in Azione), che assegna il 37% dei seggi parlamentari con il maggioritario uninominale a turno unico e il 61% attraverso un meccanismo proporzionale con liste bloccate e senza preferenze. Una condizione d’instabilità permanente.
Finora il sistema che s’è dimostrato il migliore, in funzione dell’alternanza e della governabilità, è stato il Mattarellum. E la legge elettorale resta tuttora il nodo cruciale da risolvere.
Prima di manomettere la Costituzione, alterando i rapporti fra il presidente della Repubblica e il presidente del Consiglio, sarebbe opportuno riformare una legge elettorale come quella in vigore che fu il risultato di un compromesso al ribasso e fa acqua da tutte le parti.
Tant’è vero che nella prima versione del premierato meloniano era previsto un abnorme premio di maggioranza addirittura del 55%, a favore della coalizione che sosteneva il premier eletto direttamente dal popolo.
È per questo che la riforma costituzionale propugnata da Giorgia Meloni, nonostante le correzioni apportate nel frattempo, rappresenta un rimedio peggiore del male.
In primo luogo, indebolisce il ruolo del Capo dello Stato, togliendogli due poteri fondamentali: quello di nominare il presidente del Consiglio e quello di sciogliere il Parlamento in caso di crisi della maggioranza.
E ancor più, perché attribuisce al capo del governo un potere esorbitante, al limite di un regime autocratico,svuotando la funzione del Parlamento e minacciando di ridimensionare i contrappesi (a cominciare dall’informazione e dalla magistratura).
Più che un referendum sarebbe un plebiscito, come quello in vigore nell’antica Roma che nell’età imperiale eliminò la differenza tra popolo e plebe: non a caso l’unico anagramma di premierato è imperatore. In epoca moderna, fu così che Napoleone Bonaparte venne proclamato console a vita.
Sta di fatto che al giorno d’oggi il premierato non esiste in alcun Paese europeo. Neppure in Germania e in Francia, due nazioni che Giorgia Meloni cita spesso a modello di democrazie evolute ed efficienti.
E dov’era stato introdotto, come in Israele, è stato successivamente abrogato. In questo modo, si può anche pensare (e far credere) di rendere più stabile il governo, magari fin troppostabile, ma certamente si destabilizzano gli equilibri istituzionali e si compromette la vita democratica nel segno di un’inversione autoritaria.
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