Mentre li intercettavano, i carabinieri sentivano il fruscio dei pizzini di Matteo Messina Denaro, all’epoca il latitante più ricercato del Paese. Era la prova che il boss era ancora vivo e continuava a fare affari coi suoi uomini, gli stessi che oggi sono stati scarcerati per scadenza dei termini di custodia cautelare. Una vicenda che farà discutere accaduta a Palermo, dove la Corte d’appello era chiamata dalla Cassazione a rideterminare le pene inflitte a boss e gregari di Cosa nostra trapanese.
Il venir meno di una circostanza aggravante ha determinato notevoli sconti per gli imputati e, a cascata, diverse scarcerazioni eccellenti. A lasciare la cella anche due padrini al 41 bis ritenuti fedelissimi dell’ex primula rossa di Castelvetrano, Nicola Accardo e Vincenzo La Cascia. “Dice che era in Calabria ed è tornato…”, si dicevano, non sapendo di essere intercettati Accardo, capomafia di Partanna, uno che contava nel clan, e Antonino Triolo. Il riferimento era, appunto, a Messina Denaro che, ne sono certi gli inquirenti, in Calabria si sarebbe nascosto per un po’.
Entrambi finirono in manette in un blitz che venne denominato Anno Zero, una operazione dei carabinieri e della Dda di Palermo che colpì la rete di protezione del boss e puntò al cuore della famiglia del ricercato: in cella finirono due suoi cognati Gaspare Como e Rosario Allegra, poi deceduto, oltre a diversi fiancheggiatori, capimafia ed estortori. Nel 2019 in abbreviato vennero condannati a un secolo e mezzo di carcere. Poi ci fu l’appello che si concluse nel 2021 con conferme pesanti. La Cassazione, però, nel 2023 rimandò tutto ai giudici di secondo grado del capoluogo per valutare l’esistenza della aggravante del reimpiego economico dei proventi dell’attività mafiosa. A distanza di un anno una nuova sezione della corte si è pronunciata rideterminando le pene proprio in virtù del venir meno della circostanza.
Gli “sconti” che ne sono seguiti hanno riaperto le porte del carcere per scadenza dei termini di custodia cautelare per Nicola Accardo boss di Partanna detenuto al 41 bis, Vincenzo La Cascia, capomafia della cosca di Campobello di Mazara, il paese scelto da Messina Denaro per l’ultimo periodo della sua latitanza, anche lui al carcere duro, Andrea Valenti, parente dei favoreggiatori storici del boss di Castelvetrano, i Bonafede, Filippo Dell’Aquila, Angelo Greco, Calogero Guarino, Giuseppe Tilotta, Antonio Triolo, Raffaele Urso.
L’inchiesta svelò che dalla latitanza il capomafia ricercato aveva investito i due cognati della responsabilità di gestire gli affari della “famiglia”: racket, energie rinnovabili, grande distribuzione alimentare e scommesse online. Dall’indagine venne fuori anche una intercettazione shock in cui, il factotum di Gaspare Como, Vincenzo Signorello, rivendicava la bontà della scelta di Totò Riina di rapire e uccidere il piccolo Giuseppe Di Matteo, figlio del pentito strangolato dopo oltre 700 giorni di prigionia e poi sciolto nell’acido.
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