Acqua: una privatizzazione da 64 miliardi. Bollette e interessi in gioco

di Dini Casali
Pubblicato il 22 Aprile 2011 - 11:51| Aggiornato il 14 Luglio 2011 OLTRE 6 MESI FA

ROMA – Il referendum di giugno contro la privatizzazione dell’acqua probabilmente non si farà. Dopo il nucleare, il ministro Paolo Romani ha proposto un’altra pausa di riflessione, un approfondimento legislativo, che se messo in atto disinnescherebbe la consultazione referendaria. Protestano i comitati promotori, protestano le opposizioni: è uno scippo politico. Ma al di là delle contrapposizioni ideologiche sul ruolo del pubblico e del privato, in ballo c’è una torta di 64 miliardi di investimenti necessari per rimettere in sesto i 300 mila chilometri di tubi che trasportano il prezioso liquido dalle sorgenti fino ai rubinetti di casa nostra. Senza contare la spartizione del mercato delle bollette, già cresciute del 65% dal 2002 a fine 2010, un mercato per definizione anti-ciclico.

La legge che il referendum vuole abrogare è l’articolo 15 il decreto Ronchi del settembre 2009: che rende obbligatorio il ricorso alla gare per la concessione della gestione dei servizi pubblici locali (oltre all’acqua, ci sono anche rifiuti e trasporto pubblico locale). Unica alternativa possibile è l’affidamento a società per azioni “miste” tra pubblico e privato, ma la legge impone un tetto massimo del 30% alla partecipazione degli enti locali al capitale societario. Un altro comma dell’articolo 15 spezza le gambe a tutte le gestioni in house (ovvero gli affidamenti diretti a società per azioni a totale controllo pubblico), 58 ad oggi in Italia. Dovranno cessare per decreto alla data del 31 dicembre 2011.

Insomma un piano di riforma dei servizi pubblici locali. Importante se si pensa che, per esempio, i nostri servizi idrici restano su un piano inclinato di degrado strutturale, che lasceremo alle future generazioni. A caratterizzare il sistema italiano c’è da anni il dato delle perdite di acqua dalla fonte al rubinetto: 30, 40 o 50 per cento? Un problema quindi di gestione, trasparenza, qualità dei servizi offerti, sostenibilità delle tariffe. Non dimentichiamo che pur avendo le tariffe più alte d’Europa per quanto riguarda gas e luce, per l’acqua abbiamo quelle più basse: ogni italiano paga in media 301 euro l’anno per il servizio idrico, contro i mille di un berlinese, a Bruxelles la bolletta è di 580, a Varsavia 545, a Barcellona, Oslo, Helsinki e San Francisco si spende il doppio che a Roma.

Con i privati pagheremo di più o di meno? E’ questo il punto fondamentale. Su caso specifico abbiamo pochi e contrastanti dati empirici. L’esperienza italiana insegna che le grandi privatizzazioni spesso sono state un affare solo per i fortunati concessionari, che magari incassano e non spendono un centesimo di investimento per modernizzare le infrastrutture. E’ un fatto che gli affidamenti degli Ato (Ambito territoriale ottimale del ciclo idrico integrato) ad aziende miste o private che hanno promesso più investimenti hanno comportato un balzo secco della bolletta. Un 65% in più dal 2002, dicevamo. Dove agisce la mano totalmente pubblica si privilegia per ovvi motivi di consenso politico la tariffa bassa al servizio efficiente. Non sempre è così: in questo senso l’Italia è già federale, ma nel senso negativo di non attenersi a standard qualitativi validi in ogni parte del territorio. Nel 2020 la prospettiva è che il prezzo dell’acqua per metro cubo salirà del 18%.

Il sistema, attualmente, si può dire che faccia acqua da tutte le parti. Fino al 1995, quando pagava tutto lo Stato, si spendevano 2 miliardi l’anno per la manutenzione di acquedotti, fogne e depuratori. Oggi siamo fermi a 700 milioni. Roma taglia e i privati, in assenza di meccanismi tariffari premianti, investono con il contagocce. Insomma se il privato investe su tutto il ciclo idrico, poi si rifarà sulla bolletta.

Ma chi sono i protagonisti della corsa all'”oro blu”? Il decreto prevede un tetto del 5% all’incremento delle tariffe: un tetto che però non spaventa i potenziali investitori, piuttosto interessati agli investimenti necessari per tappare le falle degli acquedotti nazionale. Un boccone di 64,1 miliardi fino al 2030. I soldi arriveranno per il 14%, stima il Censis, da aiuti pubblici a fondo perduto. Gli altri dalle bollette.

I protagonisti scalpitanti sono molti. Acea, la municipalizzata romana nel cui capitale sta crescendo rapidamente il gruppo Caltagirone (attivo nelle costruzioni), ha già oggi 8 milioni di utenti in diversi Ato a cavallo tra Lazio, Toscana e Umbria. Non solo. La società capitolina non ha mai nascosto il suo interesse per l’Acquedotto Pugliese (che Nichi Vendola sta cercando di blindare in mano pubblica) e ha iniziato a muovere i suoi primi passi anche verso la Lombardia. L

‘astro emergente – pronto a sfidare Acea per la leadership tricolore – è la Iren, la utility nata dalla fusione delle municipalizzate di Genova, Torino, Parma, Piacenza e Reggio Emilia e partecipata da IntesaSanpaolo. Opera già in Emilia, Liguria, Piemonte, Sardegna e Sicilia. E ha stretto un’alleanza azionaria di ferro con F2I, il fondo per le infrastrutture di Vito Gamberale, pronto a una scommessa importante sul business dell’acqua. Alla finestra c’è anche la Hera, la utility bolognese, forte nella regione d’origine ma ai nastri di partenza – almeno in apparenza – con piani meno ambiziosi. Mentre A2a e Acegas si muovono per ora solo a livello locale.

Poi ci sono i big stranieri. Due hanno già scoperto le carte: Suez, il colosso transalpino, in campo a fianco dell’Acea, con cui già lavora in Toscana e Umbria e il rivale francese Veolia, che distribuisce l’acqua nell’Ato di Latina, a Lucca, Pisa, Livorno e nel Levante ligure. Una sbirciatina al dossier Italia l’hanno data gli inglesi di Severn Trent (che ha già messo un piedino in Umbria) e gli spagnoli di Aqualia sbarcati da tempo a Caltanissetta.