Aumenti di stipendio e fringe benefit: ecco come capire quando il datore di lavoro è obbligato a far crescere il salario del dipendente.
Si sente spesso parlare del problema italiano degli stipendi. Se n’è occupata in più occasioni anche l’UE: in relazione agli aumenti di stipendio l’Italia è tra i Paesi dell’eurozona dove i salari crescono meno. Secondo i dati recenti, l’Italia si colloca al ventunesimo posto sui trentaquattro Paesi OCSE per salari medi annui. Il problema principale è che la crescita salariale nazionale è sostanzialmente bloccata di fronte a un costante aumento del costo della vita.
La crescita delle paghe in realtà c’è stata, ma è stata molto lenta rispetto ad altri Paesi europei. L’ultimo aumento registrato della RAL, la retribuzione annua lorda media dell’1,8% nel 2023 rispetto all’anno precedente. Nulla rispetto alla crescita che si è registrata in Germania, Francia, Olanda, Irlanda. E questo divario è ulteriormente accentuato dall’inflazione, che ha ridotto parecchio il potere d’acquisto dei lavoratori italiani.
Al di là delle solite critiche generiche alla cattiva politica e dei riferimenti al particolare stato delle finanze nazionali, non è facile spiegare il motivo della sostanziale assenza di aumenti allo stipendio degli italiani. Come diceva don Ciccio, il protagonista del romanzo Quer pasticciaccio brutto de via Merulana di Carlo Emilio Gadda, dietro il fenomeno si cela uno “gnommero”, una molteplicità di causali convergenti.
Come ottenere gli attesi aumenti di stipendio: le scadenze importanti
I salari così bassi nel nostro Paese dipendono dalla bassa produttività, dalla precarietà (lavoro nero, a tempo determinato e part-time), dall’inflazione continua che ha già eroso il potere d’acquisto dei lavoratori, dalle perfettibili regole sulla contrattazione collettiva e da un evidente squilibrio sociale. In Italia c’è troppa distanza fra privilegiati che godono di redditi altissimi e fasce più deboli che non arrivano nemmeno a 600 euro al mese. Si notano differenze preoccupanti anche fra statali e dipendenti del privato.
Il Governo pensa che sia possibile favorire gli aumenti di stipendio attraverso un nuovo taglio del cuneo fiscale, che rappresenta la differenza tra il costo del lavoro per il datore di lavoro e il salario netto percepito dal lavoratore. Si tratterebbe quindi di far aumentare il salario netto senza aumentare i costi per le imprese.
Le opposizioni invocano invece l’introduzione del salario minimo legale, per garantire che tutti i lavoratori ricevano una retribuzione adeguata. Da un punto di vista più pratico e attuale, bisogna però ricordare che l’aumento di stipendio è un diritto per il lavoratore. Ci sono dunque casi in cui il datore di lavoro è obbligato a far salire il salario.
Gli aumenti di stipendio sono garantiti dagli scatti di anzianità, che si ottengono automatico dopo un certo numero di anni di lavoro con lo stesso datore. L’alternativa è la promozione, ovvero il passaggio a un livello retributivo superiore. Parzialmente, contribuiscono agli aumenti anche i fringe benefit garantiti per legge. L’obbligo è quindi relativo alla prima e alla terza fattispecie.
I vari CCN, contratti collettivi nazionali, stabiliscono gli scatti di anzianità che i datori devono rispettare. Ci sono contratti che prevedono lo scatto ogni due anni, altri che lo fanno ogni quinquennio. E se il datore di lavoro non rispetta queste tempistiche, il lavoratore può rivolgersi alla Direzione Territoriale del Lavoro, alle organizzazioni sindacali o, in casi estremi, a un giudice. Bisogna però far attenzione ai tempi di prescrizione. Dopo dieci anni, se il lavoratore non ha richiesto l’aumento per lo scatto di anzianità, perde il proprio diritto e non ottiene gli arretrati.