ROMA – Dal “via libera salvo intese“, dato il 23 marzo da Mario Monti, alle “tipizzazioni” di cui in pochi parlano in questi giorni, il disegno di legge di riforma del lavoro che sta per essere approvato da Senato e Camera – in particolare sulla modifica dell’articolo 18 – non è stato sempre spiegato con parole chiare dal Governo, dal Parlamento, dalle parti sociali.
Anzi, spesso si è fatta confusione, con sindacati e Confindustria che hanno alternato urla e silenzio, senza vie di mezzo, mentre governanti e parlamentari si sono rifugiati nelle illimitate risorse lessicali del burocratese.
Confusione che serve, accompagnata alla scomparsa della questione dalle prime pagine dei giornali, un po’ a tutti.
A Governo, sindacati e Pd, per non dire chiaramente ai lavoratori che loro stanno appoggiando una modifica dell’articolo 18 grazie alla quale sarà più facile per le imprese licenziare.
A Governo, Confidustria e Pdl per non dire chiaramente alle imprese che con la nuova versione dell’articolo 18 licenziare non sarà poi molto più facile di prima.
Cosa cambia. Il “licenziamento illegittimo”, ovvero non motivato da “giusta causa”, contro il quale il lavoratore poteva fare ricorso è diviso in tre tipi: economico, disciplinare e discriminatorio. L’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori fino ad oggi prevedeva che il giudice, una volta stabilito che il licenziamento era illegittimo, poteva disporre il reintegro sul posto di lavoro. Poi toccava al lavoratore la scelta fra reintegro e indennizzo.
L’articolo 14 della riforma firmata dal ministro del Lavoro Elsa Fornero (la parte del disegno di legge in cui si modifica l’articolo 18) limita le possibilità di reintegro a favore del risarcimento. Modifiche che non riguardano tutti i lavoratori: l’articolo 18 continua a essere valido solo per le imprese con minimo 15 dipendenti e le modifiche proposte dal disegno di legge Fornero non riguardano il pubblico impiego, ovvero i lavoratori statali.
In caso di licenziamento discriminatorio non cambia nulla. Se invece si tratta di licenziamento economico, l’unico caso in cui il lavoratore avrebbe diritto al reintegro è se il giudice trovasse che i motivi addotti dall’azienda sono “manifestamente insussistenti”. Però sulla incodificabile “insussistenza manifesta” tutto viene rinviato alla discrezionalità del giudice.
Il punto più controverso è quello sul licenziamento disciplinare. Sul quale fra approvazione del disegno di legge (e non decreto legge, ricordiamocelo) il 23 marzo in Consiglio dei ministri, presentazione del testo in Parlamento (5 aprile) e discussione del testo in Commissione Lavoro al Senato (11 aprile – 22 maggio) si è verificato un singolare balletto.
Nella versione del 23 marzo, infatti, per i licenziamenti disciplinari (giustificato motivo soggettivo) erano previste tre ipotesi chiare su cui il giudice poteva applicare il reintegro: “1. Il fatto contestato non sussiste; 2. il lavoratore non lo ha commesso; 3. il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa (in parole povere: una multa o una sospensione, che però prevede il mantenimento del posto di lavoro) sulla base delle tipizzazioni di giustificato motivo soggettivo e giusta causa previste nei contratti collettivi applicabili”. Solo in questi tre casi il giudice doveva condannare il datore di lavoro “alla reintegrazione e al pagamento di un’indennità risarcitoria, comunque non superiore alle 12 mensilità”.
E così era fino al 5 aprile, quando il testo è arrivato in Senato con 4 righe diverse. Quattro righe che però cambiano quasi tutto. Spiegate da Nicoletta Picchio sul Sole 24 Ore: “Il giudice decide il reintegro per insussistenza dei fatti contestati ovvero perchè il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base «delle previsioni della legge, dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili»”.
In sintesi, insomma, scompaiono le “tipizzazioni“. Il giudice, insomma, non si limita a vedere se un caso rientra in un certo modello ma ha spazio di interpretazione più ampio. Soprattutto, ha scritto la Picchio: “C’è l’aggiunta dell’esplicito riferimento alle «previsioni della legge». Un cambiamento che ha un impatto notevole: il giudice avrà la facoltà di decidere in base al criterio della proporzionalità dell’infrazione disciplinare commessa rispetto alla sanzione che deve essere applicata, come prevede l’articolo 2106 del Codice Civile. Ciò gli consente una valutazione del tutto discrezionale della proporzionalità della sanzione applicata (cioè il licenziamento) rispetto all’infrazione commessa. Con la conseguenza di applicare a sua discrezione la sanzione conservativa, cioè il reintegro”.
Quattro righe cambiate, che fanno contenti Pd e Cgil mentre suscitano grandi proteste da Confindustria, che nelle due settimane dopo la presentazione della riforma del Lavoro in Parlamento ha fatto la voce grossa, per poi non parlare più dell’argomento. A capire questo improvviso silenzio aiuta la successione degli eventi.
In commissione Lavoro al Senato, sull’articolo 14 del ddl Lavoro, che modifica l’articolo 18, il Pd fa la parte del “difensore del testo così com’è”, mentre al Pdl tocca il ruolo del rappresentante degli interessi delle imprese, per cui “il testo si cambia, eccome”. Peccato che in apertura dei lavori Maurizio Castro, relatore del Pdl, e Tiziano Treu, relatore del Pd, avevano garantito entrambi e con più o meno le stesse motivazioni, che quelle quattro righe, il comma 4 dell’articolo 14, sarebbero state modificate in modo da ritornare sul testo così come era uscito dal Consiglio dei Ministri il 23 marzo. Sarebbe stato tolto quel riferimento alla “sanzione conservativa sulla base delle previsioni della legge” che ampiava la discrezionalità del giudice e che allarmava il mondo delle imprese.
Alla fine non è un emendamento del Pd, o del Pdl, o dell’Udc a far ricomparire le “tipizzazioni”, ma è dello stesso Governo: l’emendamento 14.100, approvato dalla commissione Lavoro il 10 maggio. Questo:
Al comma 1, lettera b), capoverso quarto comma, sostituire le parole: «sulla base delle previsioni della legge, dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili» con le seguenti: «sulla base delle tipizzazioni di giustificato motivo soggettivo e di giusta causa previste dai contratti collettivi applicabili»
Perché emendamento del Governo e non dei partiti? Perché Pd, Pdl e Udc, i tre partiti della maggioranza, avevano fatto un patto: nessuna ulteriore modifica all’articolo 18. Ma se la modifica venisse dal governo…
Per l’ex ministro del Lavoro Tiziano Treu, intervistato da Blitzquotidiano, “si sono fatte solo delle inutili dietrologie”. Treu, autore tra l’altro della prima importante riforma del lavoro, “il pacchetto Treu” (1997), in cui sono stati introdotte le forme di lavoro atipico e interinale, non c’è nessun mistero e nessuna ambiguità. E se la questione dell’articolo 18 non è più finita sulle prime pagine dei giornali è stato “perché non è successo niente. L’articolo 14 (quello che modifica l’articolo 18) è stato confermato dai lavori della commissione. Sulla parola tipizzazioni si sono fatte delle dietrologie, è stato detto che nascondesse non si sa che cosa. Invece ci siamo solo limitati a correggere una sorta di refuso”.
Refuso? “Sì, il disegno di legge in origine faceva riferimento anche ai lavoratori del pubblico impiego, riferimento che poi è stato tolto. Allora non aveva più senso per il licenziamento per motivi disciplinari di un lavoratore privato riferirsi alla legge (che invece vale per un dipendente pubblico, ndr) e non ai contratti collettivi. In pratica – spiega Treu – se un lavoratore è stato licenziato per un fatto che viene ritenuto dal giudice non sufficiente per motivare un licenziamento disciplinare o che secondo il contratto collettivo o codice disciplinare interno all’azienda prevede soltanto una multa, il giudice dispone il reintegro. Tutto qui. L’emendamento è stato concordato fra il governo e i relatori. È stata una correzione fatta per togliere ogni ambiguità, ma ripeto: non c’era nessuna ambiguità”.
Se Treu cerca di sgomberare il campo dalle ambiguità in un iter di approvazione della legge frutto di un compromesso che si regge sugli imbarazzi contrapposti delle parti in causa, sulla modifica dell’articolo 18 così come è venuta fuori restano intatte le perplessità. Sintetizzate da Enrico Marro sul Corriere della Sera:
Bisogna proprio essere degli inguaribili ottimisti per credere che la riforma del mercato del lavoro realizzerà un sistema «dinamico e inclusivo, idoneo a contribuire alla crescita di occupazione di qualità», come afferma la relazione al disegno di legge approvato il 23 marzo dal governo. Prendiamo le norme sui licenziamenti. […] Si può discutere se l’intervento, che rende più facili i licenziamenti, sia quello giusto. Su una parte della riforma però tutti hanno dato un giudizio positivo: gli articoli dal 16 al 21 che istituiscono un rito giudiziario abbreviato per le controversie sui licenziamenti. Oggi queste cause possono durare molti anni, a danno delle imprese e dei lavoratori. Secondo la Cgil, velocizzare i processi era addirittura l’unica modifica da fare, senza toccare l’articolo 18. E anche i nostri imprenditori, hanno riconosciuto che questa era la priorità. […] Tutto a posto allora? Nemmeno per idea. Il governo è convinto di aver fatto la cosa giusta, i sindacati sono contenti, le imprese pure, ma i giudici no. E così ieri il Consiglio superiore della magistratura ha approvato all’unanimità un parere richiesto dal ministro della Giustizia che in pratica dice: signori, il rito abbreviato non si può fare se non ci date più personale e risorse.
Da una parte (Monti-Fornero) si è voluto portare a casa uno scalpo (l’articolo 18), dall’altra (Pd-sindacati) si è voluto difendere un totem (l’articolo 18). Ma il risultato è che quelli che il lavoro ce l’hanno, hanno meno sicurezze di prima, quindi cercheranno di difendere il Fort Apache dei diritti acquisiti. Per gli altri, uscire dal ranch del precariato significherebbe solo vagare nel canyon della disoccupazione.
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