Anche l’assegno di mantenimento può crescere, per essere aggiornato tramite uno speciale “bonus”: ecco come si richiede l’aumento.
L’assegno di mantenimento è un supporto finanziario stabilito per legge attraverso cui, dopo un divorzio, l’ex coniuge più avvantaggiato economicamente permette al più debole di mantenere uno tenore di vita simile a quello sperimentato durante il matrimonio. In presenza di figli (minori o maggiorenni non autosufficienti) tramite l’assegno bisogna anche garantire il sostentamento della prole. Si tratta insomma di dover contribuire a tutte le spese necessarie per la loro crescita e formazione.
Secondo l’ordinamento vigente, ogni genitore è tenuto a provvedere al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito. E in caso di separazione o divorzio sarà il giudice a stabilire la precisa corresponsione dell’assegno. L’importo si stabilisce in base a veri parametri.
Si parte, ovviamente dalla considerazione delle esigenze attuali e specifiche del figlio, si analizza poi il tenore di vita goduto dal figlio durante la convivenza con entrambi i genitori e si basa anche ai tempi di permanenza presso ciascun genitore. Il giudice analizzerà ovviamente anche le risorse economiche di ciascun genitore.
Abbiamo parlato di esigenze “attuali e specifiche”. Ciò significa che, in teoria, l’assegno di mantenimento dei figli deve adeguarsi alle necessità del figlio al momento della sentenza del giudice, in seguito alla separazione o al divorzio. Ma cosa succede dopo? In che modo può cambiare l’assegno se le esigenze del figlio aumentano nel tempo?
Per forza di cose, con il passare del tempo, le esigenze dei ragazzi mutano, e per questo è possibile sollevare la questione di un adeguamento dell’assegno di mantenimento. Il coniuge più svantaggiato o che ha in cura i figli può insomma chiedere all’altro di contribuire in misura maggiore al sostegno della prole. Di solito bisogna accordarsi fra genitori. E se ciò non è possibile bisogna tornare di fronte al giudice.
Per legge, l’assegno di mantenimento dei figli non è immutabile: può sempre essere oggetto di variazioni. Di solito gli aumenti intervengono a seguito di rivalutazioni annuali basate sugli indici di inflazione dell’ISTAT o a cambiamenti significativi nelle condizioni economiche dei coniugi.
Ogni età, per quanto riguarda i figli, comporta spese differenti. Un paio di anni fa Bankitalia calcolò una spesa media di circa 640 euro al mese per ogni figlio. Fino ai tre anni, si spende per pannolini, vestiti, latte, cibo, giocattoli ed eventualmente asili nido e babysitter. Poi le spese cominciano a lievitare.
Non ci sono dubbi: le voci di spesa crescono sensibilmente con passare degli anni. Alle elementari bisogna pagare i libri, la mensa scolastica, il doposcuola, le attività sportive. Quando un figlio entra nella fascia d’età fra i quindici e i diciotto anni il costo del mantenimento raggiunge il suo picco massimo, con spese che investono non solo lo studio ma anche il vestiario, lo svago e i viaggi.
In quest’ottica appare sensato che l’assegno di mantenimento aumenti con l’età e che a una certa soglia arrivi una sorta di “bonus”. La Corte di Cassazione ha chiaramente spiegato con l’ordinanza n. 11724/2023 che per definire l’ammontare del contributo per il mantenimento del minore a carico del genitore non affidatario va applicato il principio di proporzionalità.
E tale principio si deve basare sul confronto dei redditi di entrambi i genitori e sulle necessità attuali del figlio (e del suo tenore di vita). Per un ragazzo, le necessità economiche aumentano con la sua crescita. E per questo, secondo la Cassazione, l’assegno deve crescere, così come crescono le esigenze di cura, educazione e assistenza.
Tutte queste spese straordinarie richiedono dunque un adeguamento proporzionale dell’assegno di mantenimento che diventa una sorta di bonus. Quantificare questo aumento non è possibile, dato che ogni condizione è particolare, cioè legata al tenore di vita di partenza, al reddito dei genitori e alle esigenze specifiche del minore.