Bombassei in corsa per Confindustria. Candidati anche Squinzi e Riello

ROMA – Con un programma di dieci punti, pubblicato sul Corriere della Sera, l’imprenditore bergamasco e presidente della Brembo, Alberto Bombassei, vice presidente per le Relazioni industriali di Confindustria, si candida alla guida dell’associazione degli industriali. Il documento è stato mandato ai membri di giunta e ai presidenti delle associazioni di Confindustria.

I candidati finora emersi, in modo ufficioso, oltre al titolare della Brembo, sono il patron della Mapei Giorgio Squinzi e il veneto Andrea Riello, che però dovrebbe uscire presto di scena. Nella sintesi giornalistica, Bombassei è “Il falco”, Squinzi “la colomba”: il primo con un gruppo quotato in borsa da un miliardo di euro di fatturato, il secondo con una multinazionale familiare da due miliardi.

”Impegno primario della prossima presidenza confindustriale – ha scritto nel documento – sarà quello di riuscire a dare alle imprese di ogni dimensione e settore, una ‘scatola degli attrezzi’, costruita a livello interconfederale, dalla quale ogni azienda possa scegliere il modello di contrattazione piu’ coerente con le proprie esigenze. A questo proposito sono convinto che sia sbagliato ritenere che per avere liberta’ di decisione nei rapporti di lavoro sia meglio non essere associati a Confindustria. Semmai e’ vero proprio il contrario. Appartenere a Confindustria significa disporre di un ulteriore valore aggiunto a disposizione dell’impresa”.

Bombassei apre il documento, con un quesito: “Da tempo e in molti, ci interroghiamo se una grande nazione europea, come l’Italia, può continuare a cullarsi nella continuità, mentre il mondo cambia con una velocità vertiginosa. Chi come noi si confronta ogni giorno con le dinamiche internazionali sa che la risposta è no. Ebbene, il problema del nostro Paese è oggi racchiuso proprio in questa negazione. In altri termini, nello stato d’animo degli italiani è assente quella forza che – nonostante il rallentamento in corso – trainerà l’economia globale fuori dalla crisi. Mi riferisco all’energia di milioni di persone – in gran parte giovani – che in molte parti del mondo vedono nella trasformazione in corso la possibilità di costruirsi una migliore prospettiva di vita”.

I fatti parlano chiaro: davanti a noi abbiamo non solo nazioni grandi come continenti che si affacciano sulla scena dell’economia globale, ma anche la più rapida rivoluzione tecnologica della storia dell’umanità. Un processo che ridisegna le mappe mondiali delle competenze e della ricchezza. Il nostro Paese subisce questo stato di cose stordito dal debito, dai suoi troppi ritardi e da una società che, nel suo complesso, appare refrattaria all’innovazione sia essa economica, sociale e culturale. Viene naturale confrontarci con la Germania, vale a dire il Paese con cui condividiamo la leadership industriale in Europa. I tedeschi, grazie a 15 anni di continue riforme, sono riusciti ad abbattere la loro spesa pubblica di ben dieci punti fino a raggiungere il 44% del Prodotto interno lordo. Per non considerare, poi, il pragmatismo con cui le aziende tedesche hanno superato i vincoli che rendevano poco flessibile il loro mercato del lavoro archiviando definitivamente rigidita’ ideologiche e difese di vecchi diritti. E noi? Negli ultimi dieci anni, mentre i tedeschi compivano il loro miracolo, il nostro Paese ha azzerato il vantaggio finanziario dell’euro aumentando di ben sei punti la spesa pubblica che ha cosi’ superato il 52% del Pil. Il risultato e’ noto: oggi non solo dobbiamo salvare l’Italia, ma siamo obbligati a far crescere la sua produttivita’ e, con essa, la sua economia, semplificando ed ammodernando nello stesso tempo tutto il suo sistema sociale, giuridico e burocratico.

Dopo decenni di ”prediche inutili” gli italiani stanno dolorosamente iniziando a comprendere che il loro Paese e’ un malato molto grave. Di fronte a una patologia la diagnosi e’ determinante. Proprio per questo voglio dirti le cose senza giri di parole. L’entita’ del nostro debito pubblico – vale a dire la nostra ”malattia” – e’ il risultato di un processo al quale hanno partecipato, consapevolmente o no, tutte le categorie economiche e sociali nessuna esclusa. Ha contribuito – con grande zelo – un ceto politico che, per decenni, ha intermediato interessi pagando e rimborsandosi a pie’ di lista. Non sono estranei al ”debito” neppure i troppi soggetti della rappresentanza che, avallando questo stato di cose, hanno tratto benefici diretti o indiretti. Nello scorso mese di dicembre il Rapporto del Censis ha fotografato un Paese che avverte la gravita’ del momento, ma che, nei fatti, non riesce ancora a darsi priorita’ e obiettivi condivisi, perche’ sembra anche confuso e demoralizzato. Tutto cio’ rimanda, immediatamente, alla questione delle leadership nazionali e locali. La situazione e’ grave: meccanismi di promozione inceppati, scarsa mobilita’ sociale, protezionismi e corporativismi, mancanza di senso del bene comune e delle Istituzioni. Sono queste le cause dell’incapacita’ di produrre nuove leadership. Da troppi anni assistiamo all’intreccio tra scarsa autostima generale e attribuzione a qualcun’altro delle responsabilita’ dei piccoli o grandi fallimenti. Una rinnovata leadership – prima di tutto politica – e’ oggi indispensabile per guidare il Paese non solo fuori dalla crisi, ma anche nella nuova dimensione globale che si va delineando.

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