Cinque mosse per il Pd: la Cgil, la Rai, le tasse, la Chiesa, i magistrati. O cambia o non serve

I tre candidati alla segreteria del Partito Democratico

Uno è “populista”, cioè interpreta, accarezza e sollecita gli umori e le passioni del suo “popolo”, in particolare quella “nuovista”, legalitaria e anti berlusconiana. L’altro è “governista”, cioè si occupa e si preoccupa delle possibili alleanze, sociali e politiche, per poter tornare un giorno al governo. Il terzo è “movimentista”, cioè attento e speranzoso in quel che si muove e si organizza spesso fuori dai partiti, ad esempio il bisogno di laicità o l’anti nuclearismo. Sono Franceschini, Bersani e Marino, i tre candidati alla segreteria del Pd. Tutti e tre respingerebbero la definizione, l’aggettivo con cui li abbiamo individuati. Rifiuterebbero l’etichetta con qualche ragione, in tutti e tre i casi “l’ismo” che li qualifica e li incasella è un filo ingeneroso, un po’ forzato e certamente generico. Ma è colpa loro se l’identikit esalta le sfumature, se la fotografia tresca con la caricatura. Colpa loro perché nessuno dei tre ce l’ha fatta finora, e il loro partito con loro, a proporre un disegno e un’identità concretamente “riformista”.

Cosa deve fare il Pd per essere riformista, che non vuol dire essere moderato e moscio ma significa invece essere realisticamente aggressivo della situazione esistente? E ce la può fare il Pd, la sua classe dirigente e la sua gente, ad essere riformista? Ecco la miscela, il contenuto di un riformismo possibile in Italia, un riformismo capace, almeno potenzialmente, di ridisegnare l’attuale geografia elettorale.

Primo ingrediente: la separazione della proposta economica e sociale del partito da quella della Cgil e del sindacalismo anche di targa Cisl e Uil. Non tutto, non tutta la questione del lavoro e del salario, del fisco e della produttività, possono risolversi con la religione sindacale della “apertura di un tavolo”. Il sindacato in Italia legittimamente rappresenta una parte del mondo del lavoro che tende alla conservazione dell’esistente. Tra ciò che esiste ci sono cose ottime, la natura e la garanzia pubblica di alcuni servizi sociali, ma anche cose pessime quali l’incontrollata spesa pubblica. Non si tratta per il Pd di dichiarare guerra al sindacato nello stile Brunetta o Sacconi. Si tratta però di spezzare l’identificazione con il sindacato. Si può fare, lo può fare il Pd? La sua gente ci sta? Finora ci ha debolmente provato senza mai riuscirci. Se lo facesse, cosa perderebbe o guadagnerebbe in termini elettorali? Perderebbe qualcosa a sinistra, nell’opinione di sinistra. Guadagnerebbe l’accesso a ceti con cui oggi non parla.

Secondo ingrediente: spezzare l’identificazione tra il Pd e la magistratura. Operazione questa più ardua della precedente. Non andare a rimorchio della magistratura e non essere l’eco delle Procure sarebbe agevole in un paese che ha una qualche cultura e un qualche rispetto della legalità. In Italia questa non c’è, a livello di massa. Quindi lo sganciamento dalla magistratura rischia di tradursi in abbandono del principio minimo di legalità. Non è certo colpa del Pd ma è la società italiana a obbligare il Pd ad essere avvinto a una struttura comportamentale “giustizialista”. Facendo dei sindacati un interlocutore cui dire qualche volta sì e qualche volta no, il Pd può smettere di essere il partito della spesa e delle tasse. Può farlo restando, anzi diventando un partito della sinistra sociale e insieme riformista. Negando, smettendo di far sponda al giustizialismo, il Pd invece non solo regala qualche voto a Di Pietro, soprattutto rischia di muovere qualche passo giusto verso il vuoto di legalità nazionale. È colpa della destra italiana che ha la legalità in dispetto e dispregio, è colpa della società italiana insofferente ed ostile alle regole. Un solo esempio: nel nostro paese chi vende cibo avariato viene punito, quando viene punito, con una multa da 500 a 3000 euro. E nessuno vive questo come “insopportabile”.  Ma, senza una legalità che non sia quella degli avvisi di garanzia e dei talk-show, senza una legalità i cui tutori non siano Santoro e Travaglio, non c’è partito riformista.

Terzo ingrediente: basta con le tasse. O meglio, tasse sulla rendita, in Italia le più basse d’Europa. Tasse su chi non paga: tracciabilità dei pagamenti e niente condoni. Ma meno tasse su salari, stipendi, pensioni e profitti. Può farlo il Pd? Avrebbe già dovuto farlo da tempo. Non ci riesce per crampo ideologico e culturale. O lo fa o avrà gambe e muscoli che non corrono.

Quarto ingrediente: basta con il partito Rai. Privatizzare l’azienda: nulla può essere peggio per il Pd, e per il paese, di un’azienda pubblica che interpreta questa sua natura come dedizione, obbedienza e ossequio al governo e al potere. Quando il Pd capirà che la battaglia per un direttore su sei e per i “redattori capo” è inutile quanto mortificante, avrà fatto un favore a se stesso e all’informazione.

Quinto ingrediente: coraggio sulle libertà. Libertà di chiudere un’azienda quando è fallita. Libertà di disporre del proprio corpo anche se la Chiesa non vuole. Libertà della propria scelta sessuale. Libertà di dire no a chi scambia un voto con una concessione edilizia. Libertà di dire no a chi non vuole costruire un’autostrada o una centrale energetica.

È di sinistra la miscela riformista? Riformista è in molti paesi d’Europa anche la destra. Non in Italia, ma i liberali tedeschi o i conservatori inglesi e, in certa misura perfino Sarkozy, sono ecologisti, aperti ai diritti dei gay, sereni sull’immigrazione, difensori dei servizi pubblici, scuola e sanità soprattutto. In Germania, Gran Bretagna, Scandinavia e un po’ pure in Francia una destra assai diversa da  quella italiana. Una destra riformista. Se il Pd diventa riformista, smette di essere di sinistra? Qualcuno lo penserà ma, vista la destra italiana, è un pericolo che il Pd non corre.

E se il Pd fa tutto questo che succede all’elettorato, alla geografia elettorale italiana? Succede che si forma una “linke giustizialista” che non sta nel Pd, qualche voto dal Pd lo prende e fa 15 per cento dei voti. Succede che una parte almeno dei piccoli imprenditori, della gente del Nord, del ceto medio professionale molla la destra italiana che resta un Pdl più Lega che fa quaranta per cento. Succede che, tra uscite ed entrate, il consenso al Pd riformista si assesta intorno al 30 per cento perché il partito mostra di essere vivo, minoranza viva, cioè alternativa possibile. Succede che il partito cattolico che c’è resta dove sta, al sette per cento, ma gli passa ogni voglia di tornare dove stava, a casa Berlusconi.

Succede che resta un dieci per cento dell’elettorato da conquistare, elezione per elezione. Succede che la partita si gioca. Quella partita che oggi è per il Pd senza speranza. Succede che il progetto berlusconiano di cambio della Costituzione e di potere unico perde il gemellaggio con l’unico governo possibile e si rivela per quel che è.

Ma succede? Può succedere? Può farlo il Pd? Ce la farà il suo segretario? Ce la farà la sua gente? La risposta non verrà dalle primarie. Verrà dalla campagna elettorale per le Regionali di marzo. Se anche allora si vedranno “populismo”, “governismo” e “movimentismo” comunque miscelati in una minestra riscaldata, se anche allora il riformismo farà da comparsa, buona notte sinistra. Chissà se l’astuto e dotto D’Alema, il nobile Prodi, l’instancabile Fassino, il malmostoso Rutelli, la tenace Bindi l’hanno capito. Chissà se lo capisce la gente del Pd che sempre invoca cambiamento senza pensare che a cambiare deve essere lei stessa.

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