Alla fine del 2009 hanno sfondato quota 1,5 milioni. Con un aumento di quasi 111mila unità rispetto al 2007 e un tasso di crescita del 7,9 per cento. Sono i numeri dei conti correnti che gli immigrati hanno aperto nelle banche del nostro paese secondo l’ultimo monitoraggio curato dall’Associazione bancaria italiana (Abi) e dal Centro studi di politica internazionale (Cespi).
Le rilevazioni, suddivise in due tipologie (a 21 e 13 nazionalità presenti in Italia), mostrano andamenti differenti. Nel primo caso, quello che tiene conto degli stranieri provenienti da ventuno paesi, il tasso di crescita dei conti correnti nel biennio 2007-2009 è inferiore a quello dell’aumento numerico della popolazione immigrata (7,9% contro il 32%).
Nel secondo invece, quello ristretto a tredici, i dati cambiano: a fronte di un aumento del 39% della popolazione, i nuovi conti correnti sono aumentati addirittura del 75 per cento. Negli ultimi anni, poi, sempre più migranti hanno fatto ricorso a strumenti finanziari “evoluti” come l’internet banking, le carte di credito e i prodotti di accumulo risparmio.
Per quanto riguarda la tipologia dei clienti, dominano quelli tradizionali: novantasei conti su cento registrati alla fine del 2009 appartenevano a famiglie o a singoli. Di questi, il 18% era titolare di un conto nella stessa banca da più di cinque anni. Quasi un terzo, poi, ha chiesto una qualche forma di credito: soprattutto prestiti (34%) e credito immobiliare (28%). E con tassi di regolarità nei pagamenti molti alti: otto stranieri su dieci hanno rispettato sempre le scadenze.
Le attività imprenditoriali condotte dai lavoratori immigrati offrono ”un considerevole contributo alla crescita del sistema economico nazionale”: è quanto ha detto il presidente della Camera Gianfranco Fini in un messaggio inviato ai partecipanti di un convegno sull’inclusione finanziaria degli immigrati all’Abi.
”I lavoratori stranieri – osserva Fini – hanno assunto rilevanza nel nostro sistema economico e produttivo: ciò a causa di evidenti ragioni demografiche e culturali che hanno condotto i giovani italiani ad abbandonare talune forme di impiego, ritenute non più qualificate e remunerative”.