Creare valore e lavoro non è solo prezzo e salario, per competere globalmente

Non è un paradosso affermare che i fini di Confindustria e quelli delle imprese non solo non coincidono necessariamente, ma spesso divergono.

Diceva Angelo Costa, il mitico rifondatore di Confindustria nella ricostruzione italiana dal 1945 al 1955, che la missione di Confindustria è tutelare le imprese non ancora nate. Liberista convinto, Angelo Costa ha sostenuto nel decennio cruciale del secondo dopoguerra l’apertura dei mercati, l’abbattimento del protezionismo, liberalizzazioni e privatizzazioni. Non erano certo obiettivi fondamentali delle imprese, che da apertura dei mercati e concorrenza avevano molto da temere.

E d’altronde si può dire che nell’obiettivo di ogni azienda di battere la concorrenza sia contenuto il fine – legittimo – di dominare monopolisticamente il mercato. Può essere il fine dell’impresa, ma può l’associazione delle imprese consentire che si affermino monopoli?

E’ del tutto evidente che, se i fini di Confindustria possono non coincidere con quelli delle imprese, è perché Confindustria è, naturalmente, portatrice di interessi generali che interessano tutti gli associati, e non sono ascrivibili solo a qualcuno di essi.

Di interessi generali, peraltro, vuole preoccuparsi la politica, normalmente portata a soffrire e contrastare pretese invasioni di ruolo da parte dei corpi intermedi, come le Associazioni. Nel caso dovrebbe prevalere il principio di sussidiarietà, che porta a gestire i problemi il più possibile vicino a dove sorgono e a favorire la loro autonoma gestione da parte dei soggetti interessati.

Gli interessi generali delle imprese investono il contesto competitivo – mercato e concorrenza – le risorse – fisco e credito – e i fattori che determinano il successo nella competizione globale – cultura, educazione e sviluppo delle competenze, ricerca e sviluppo, creatività ed innovazione, infrastrutture materiali ed immateriali. E’ questo il campo degli interessi e dei fini di Confindustria. Non certo quello dei sostegni a settori od aziende fatti rientrare sotto il cappello di politiche di settore, politiche industriali, formazione e tutela di campioni nazionali, operazioni di “sistema”. Come diceva l’immortale maschera di Stefano Ricucci del fallito contemporaneo assalto a BNL ed RCS: ”è un’operazione de sistema, un po’ de qua, un po’ dellà”, così di tutto l’armamentario prima richiamato la definizione corretta è distorsione della concorrenza e del mercato, a favore di alcuni, e perciò contro altri.

E questo vale a chiarire anche l’improprietà di ruoli che a Confindustria sono stati addossati a partire dalla presidenza di Antonio D’Amato, in relazione all’attività di lobby.

La lobby è un’attività di difesa di interessi, legittimi, di un operatore o di un insieme omogeneo di operatori economici. Le lobby competono su risorse (pubbliche) o normative (pubbliche) tendenti a proteggere o favorire l’operatore o gli operatori interessati, introducendo perciò alterazioni al sistema competitivo a sfavore di altri.

Le lobby andrebbero lasciate fuori dal sistema associativo delle imprese, che dovrebbe invece concentrarsi sul rafforzamento dei prerequisiti (politiche delle risorse e dei fattori) che qualificano e rafforzano il posizionamento competitivo delle imprese e dell’economia italiana nella divisione internazionale del lavoro.

Non meravigli che il primo fattore citato sia la cultura: è dalla cultura che trae linfa ed alimentazione la creatività italiana, che qualifica in modo esclusivo la nostra capacità di creazione del valore.

E’ sulla creazione di valore, non certo sulla riduzione dei costi, in particolare dei materiali che non abbiamo e non dominiamo, e del lavoro che abbiamo ancora con relativa abbondanza quantitativa e squilibri qualitativi, che possiamo essere altamente competitivi con i nuovi, grandi attori della competizione globale. Valore e lavoro. Il loro significato, nel contesto delle imprese, può esaurirsi in termini di prezzo e salario?

(2 continua)

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