ROMA – Come ritrovare la forza del made in Italy nonostante la crisi: è stato questo l’importante tema di un dibattito tra Bill Emmott e Marco Fortis coordinato dal direttore del Sole 24 Ore, Gianni Riotta.
Forti, economista responsabile della direzione studi economici si Edison spa e docente all’Università Cattolica di Milano, ed Emmott, storico direttore dell’Economist dopo essere stato corrispondente dal Giappone e dalla Corea del Sud, sono partiti da un punto in questione: se il made in Italy sia ancora un modello.
“Non c’è dubbio che in Italia vi sia una notevole capacità imprenditoriale nell’industria manifatturiera, ha risposto Emmott, ma il termine stesso Made in Italy mi pare obsoleto. Piuttosto avrebbe più senso parlare di concepito, progettato, disegnato e sviluppato in Italia. Quanto al Made in Italy come espressione di un sistema paese, con leggi e un’amministrazione capaci di favorire lo sviluppo di queste imprese, non tiene. Perché ci sono troppi ostacoli, troppa burocrazia che riducono la crescita potenziale. Ecco, più che di Made in Italy parlerei di “Obstructed in Italy”, “Ostruito in Italia”, dove le debolezze sono di molto superiori ai punti di forza. Piazzerei volentieri alcune bombe su questi ostacoli, per liberare il vero potenziale dell’economia italiana”.
“Il Made in Italy, gli fa eco Fortis, con un tessuto imprenditoriale fondato sui distretti, resta un modello che funziona. E funziona nonostante tutto. Sono d’accordo con Bill sulla formula dell'”Ostruito in Italia”. Lavorare da noi è davvero una impresa. Basti pensare ai tempi della giustizia e ai costi dell’energia. E sono condizioni difficili da modificare per il singolo imprenditore, anche perché spesso la sua dimensione è tale che non riesce con facilità a delocalizzare. Qui è e qui deve rimanere. L'”imprenditore” è davvero una figura centrale nella nostra storia. E lo sarà anche in futuro. Ho letto nel suo libro “Forza, Italia” che Bill apprezza molto Brunello Cucinelli, il re del cashmere. Lo potrei accompagnare in distretti della meccanica, dell’elettrotecnica e del mobile dove, di Cucinelli, gliene presenterei trenta per volta”.
L’industria manifatturiera e l’eventuale contrapposizione tra produzione e servizi
Dice Emmott: “La distinzione tra industria e servizi non ha più senso. Non ha senso per il sistema paese abbandonare il manifatturiero o trascurarlo finché, come nel caso italiano, produce utili e ricchezza. Anzi, lancio una provocazione: il manifatturiero italiano è un fallimento rispetto alle sue reali potenzialità. È comunque più utile per l’Italia occuparsi dei suoi punti di debolezza: il settore dei servizi è uno di questi. Come per la Germania è troppo regolamentato. Ma, almeno, il terziario tedesco è più efficiente e produttivo”.
Per Fortis “Non c’è alcuna contrapposizione ideologica fra la produzione e i servizi. Però va detto con chiarezza che sarebbe un errore puntare su servizi avanzati rinunciando a parte dell’industria. La nostra natura è profondamente manifatturiera. La finanza è una forma raffinata del terziario. E vediamo cosa è successo con l’ultima crisi, fondata sulla sua trasformazione in una attitudine speculativa fortissima e fine a se stessa. Un altro conto, invece, è il miglioramento dei servizi che possono essere utili alla nostra industria. Noi non abbiamo la grande distribuzione. È un problema, perché ci servirebbe, per esempio per imporre i nostri prodotti, il nostro Made in Italy, sui mercati stranieri. Sul versante del collegamento fra servizi e impresa, abbiamo comunque un esempio virtuoso nelle nostre banche. Che sono banche di territorio”.
La capacità dell’Italia di intercettare la ripresa internazionale, in particolare quella tedesca, nostro primo partner commerciale
Bill Emmott ci tiene a una precisazione: “D’accordo, la Germania è cresciuta più di tutti in Europa, ma stiamo parlando della crescita di un anno solo. Basarci sulla performance di un anno può essere fuorviante e oggi non sappiamo dire quanto questa crescita, che poggia soprattutto sulla domanda esterna, possa essere sostenibile nel medio-lungo termine”.
Fortis conferma: “La Germania resta il nostro primo riferimento. La crescita del Pil di oltre il 3% ha in parte rimediato al pessimo 2009, quando perse il 5 per cento. Si tratta di una crescita che ha avuto una doppia origine: la capacità delle sue imprese di conquistare i nuovi mercati e allo stesso tempo la necessità di ricostituire le scorte delle sue consociate estere. Noi stiamo crescendo in maniera più lenta, ma certo l’effetto di trascinamento della Germania c’è”.
La modifica dell’articolo 41 della Costituzione, nel senso del “ciò che non è vietato è permesso”
Sull’intervento sulla carta costituzionale i due studiosi sono d’accordo: “Non è poi così essenziale. Servono veri interventi strutturali. L’imprenditore italiano ha imparato a muoversi come in apnea, a causa dell’ambiente ostile in cui si è sempre mosso. Qualcosa di simile a dover respirare sulla luna. Ora, si possono anche cambiare i quadri normativi e giuridici. E la Costituzione è il primo di essi. Ma, molto più importante, è riuscire a eliminare i lacci e i lacciuoli e ridurre gli handicap di sistema in cui trova a muoversi.
Il nuovo corso dalla Fiat di Sergio Marchionne
Per Emmott, “l’accordo tra Fiat e sindacato su Pomigliano e Mirafiori rappresenta un vero punto di svolta nelle relazioni industriali. Soprattutto perché l’agente del cambiamento non è stato il governo, ma un’impresa, il più grande gruppo industriale del paese”.
Positivo anche il giudizio di Fortis: “La carica propulsiva di Marchionne ha un effetto modernizzatore per l’economia italiana e obbliga il mondo della rappresentanza a rimodularsi. Fiat può davvero costituire un punto di svolta per il nostro paese. E va trattenuto qui. Anche se ormai la tendenza alla delocalizzazione è fortissima. Bisogna fare di tutto perché questo non accada con Fiat”.
Il mercato del lavoro e le sue riforme
Emmott e Fortis sono concordi: “La legge Biagi ha dato una risposta nel breve termine ad alcuni problemi legati alla flessibilità del lavoro, ma si dovrebbe arrivare a una revisione generale del sistema di contrattazione collettiva. In questo credo che anche Confindustria potrebbe avere un ruolo importante con un’iniziativa per modificare la legislazione sul lavoro e anche con una svolta sul proprio ruolo”. Aggiunge Fortis: “Nella piccola e nella media impresa, i rapporti di lavoro sono già assai flessibili. E non sono rapporti conflittuali. Il problema, semmai, è quello di conservare questo genere di flessibilità, che non è fondata su un presunto sfruttamento ma su un reale vantaggio reciproco, anche qualora l’azienda proseguisse nella crescita assumendo la fisionomia della grande fabbrica”.
La questione sempre aperta del Sud
Per Emmott Fortis, come per il presidente della Confindustria siciliana Ivan lo Bello, non ci vorrebbero più infrastrutture, ma “semplicemente più mercato e non più stato”.
L’impatto della rivolta nei paesi arabi sull’economia italiana
Secondo l’ex direttore dell’Economist, “la rivoluzione in Nord Africa, a lungo termine, possa produrre grandi opportunità di crescita e sviluppo sia a livello economico sia a livello sociale e politico. A breve abbiamo, è vero, forti turbolenze, ma è il prezzo che dobbiamo pagare per ottenere gli innegabili vantaggi di lungo termine: la soddisfazione delle aspirazioni di quei popoli al rispetto dei diritti civili e una redistribuzione della ricchezza, della quale potranno beneficiare anche le imprese”.
Fortis sottolinea il problema dell’immigrazione, “che non potrà che arrivare sulle nostre coste. Sul lungo termine, però, non potremo che averne vantaggi. Anche perché, finora, l’Africa è stata la grande dimenticata della globalizzazione. E la cosa non potrà che cambiare. I cinque paesi del Nord Africa producono un valore aggiunto industriale inferiore a quello della sola Polonia. E, quando le cose cambieranno, anche per una semplice questione di geografia economica, le imprese italiane ci saranno”.
La politica industriale italiana
Tranchant il giudizio di Emmott: “Direi che attualmente non esiste proprio una politica. C’è un governo che sta funzionando come struttura. D’accordo, Tremonti ha fatto un buon lavoro, ma è stato soprattutto un lavoro di disciplina fiscale, di rigore, per tenere sotto controllo i conti. Non è però una politica economica capace di creare ricchezza. Insomma, parafrasando il titolo della recensione che Marco ha fatto del mio libro su Panorama Economy, “Try it again, Bill”, mi sento di dire, alla fine, “Try it again, Italy”
Stessa linea per Fortis: “Oggi non ha senso parlare di politica industriale. Il programma di Industria 2015, impostato dal precedente governo, non è decollato. Ma, anche se lo fosse, non è che avrebbe prodotto una crescita di tre punti. Negli ultimi due anni il governo ha avuto una politica nebulosa, anche perché ha dovuto affrontare problemi non normali. È vero che Tremonti ha attuato una politica incentrata sul contenimento dei costi. L’Italia non ha speso niente per uscire dalla crisi. Altri, sì. L’Italia nel 2010 è cresciuta dell’1,3%. Come l’Inghilterra. Il deficit primario italiano è uguale a zero. Quello inglese è pari al 7 per cento”.