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Cronaca di un’inflazione annunciata

di admin |25 Febbraio 2011 13:14

Mario Draghi

Quando lunedì 21 febbraio il governatore di Bankitalia ha sottolineato che oggi il primo compito della politica monetaria è “tenere ben ancorate le aspettative di inflazione”, in molti hanno pensato che Mario Draghi desse tanto peso alla questione dei prezzi per catturare la benevolenza di Angela Merkel (è nota la particolare idiosincrasia tedesca per l’inflazione) in vista della prossima sostituzione del presidente della Bce, Jean-Claude Trichet, che vede il governatore italiano in pole position tra i candidati. E’ invece probabile che non di mera tattica “elettorale” si trattasse ma che all’orizzonte stia prendendo corpo effettivamente un serio problema di aumento del costo della vita.

Nell’eurozona, a gennaio, l’indice dei prezzi ha segnato un più 2,4, livello un po’ superiore a quella soglia del due per cento che la Bce, fin dalla sua nascita, ha fissato come limite da non superare, se non per brevissimi periodi. Proprio perché si poteva ipotizzare che lo sforamento fosse del tutto contingente, all’Eurotower hanno deciso di non porre immediatamente mano a un rialzo dei tassi che poteva interferire negativamente con gli ancora deboli accenni di ripresa per una parte dell’eurozona. Ma l’impennata dei prezzi è davvero temporanea e limitata allo zero e qualcosa in più? In realtà si stanno moltiplicando i segnali che la faccenda è assai più grave. Vediamoli da vicino.

I primi, seri turbamenti dei mercati sono venuti a seguito della crisi bancaria tra il 2007 e il 2008: le massicce iniezioni di liquidità decretate dalle autorità monetarie dei maggiori paesi, Usa in testa, coniugate a tassi prossimi a zero, hanno indotto numerosi commentatori a pronosticare che di lì a poco una ventata inflazionistica si sarebbe abbattuta sul mondo sviluppato. Previsione mancata, eccezion fatta per alcuni specifici prezzi e per brevi periodi.

E’ il caso del petrolio che nell’estate 2008 ha toccato il record di 147 dollari al barile ma già a dicembre dello stesso anno era riprecipitato a 30,6 dollari. Nel medesimo periodo anche i beni alimentari erano cresciuti di prezzo in molti paesi, talora provocando sanguinose rivolte. Ma si era trattato comunque di episodi isolati: l’inflazione non si era messa a galoppare né si era diffusa su tutto il sistema economico per una circostanza molto semplice: l’economia mondiale era in piena depressione, la ripresa lontanissima, in generale la grande disponibilità di liquidi non consentiva diffuse speculazioni al rialzo né la debole domanda permetteva il trasferimento sui prezzi degli eventuali aumenti dei costi.

Successivamente lo scenario è cambiato. A metà 2010 gli Stati Uniti hanno avviato una nuova, massiccia immissione di liquidità nel sistema, la cosiddetta fase 2 del “quantitative easing”. Sempre l’anno scorso la crisi dei debiti sovrani dei cosiddetti Pigs (Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna) ha indotto la Bce e i governi dell’eurozona a interventi di soccorso anche attraverso operazioni di mercato aperto (acquisto di titoli, anche bancari, sul mercato) che hanno accresciuto la liquidità. Tutto ciò avveniva sempre con tassi di interesse rasoterra. A differenza che nei due anni precedenti, però, le iniezioni di moneta si accompagnavano a una congiuntura in chiara risalita. Soprattutto le locomotive americana e tedesca ricominciavano a tirare e in questa nuova fase le ripercussioni dell’abbondante liquidità sull’inflazione hanno cominciato, seppur timidamente, a farsi sentire.

Nel frattempo a livello mondiale si manifestavano altri fenomeni, con caratteri sia congiunturali che strutturali, che provocavano forti incrementi nei prezzi dei generi alimentari e delle materie prime. Commodities come zucchero, riso, cereali e cotone in pochi mesi subivano apprezzamenti tra il 25 e il 100 per cento, causati da una molteplicità di fattori. Ne citiamo alcuni: una siccità che non si vedeva da 130 anni in Russia, intorno al Mar Nero e successivamente in Cina, in Argentina e in parte in Canada; al contrario, un eccesso di piogge in India che aveva provocato un drammatico aumento del prezzo delle cipolle, colà ingrediente basilare; una domanda di prodotti alimentari in aumento da parte dei paesi emergenti, in particolare un inedito consumo di proteine animali alla cui produzione debbono venire destinate quote crescenti di terreni per coltivarli a mangimi; l’utilizzo di grandi quantità di mais per la produzione incentivata di etanolo; una riduzione strutturale dei terreni coltivabili a vantaggio di quelli urbanizzati e un impoverimento altrettanto strutturale dei terreni supersfruttati e inquinati.

Tutto ciò, e altro ancora, si è riversato sui prezzi degli alimentari il cui Food Index targato Fao ha segnato negli ultimi due anni il massimo storico mai misurato. Le ripercussioni anche politiche non si sono fatte attendere: i sommovimenti, in Tunisia, Egitto, Libia, Iran e in altri paesi ancora, certo non dipendono esclusivamente dal caro-pane ma probabilmente ne hanno ricevuto una potente spinta. Si pensi che in uno Stato come l’Egitto la spesa alimentare è pari mediamente al 48 per cento dell’intera spesa per consumi, mentre vi sono altri paesi africani, nonché India, Bangladesh e Vietnam, dove tale percentuale supera il 50 per giungere al 73 (Nigeria).

Un’altra importante deriva inflazionistica è venuta nell’ultimo biennio, e si è accentuata negli ultimi mesi, dal fronte dei prezzi delle materie prime non alimentari. Nello scorso semestre il rame è aumentato del 36 per cento, l’argento del 65, l’indice Dow Jones delle materie prime del 23, l’oro macina record dopo record ormai da molto tempo. Per non parlare del petrolio. L’oro nero costava 25,6 dollari al barile nel 1999; dopo il forte rialzo a metà 2008 è tornato a poco più di 30 dollari a dicembre 2008; alla fine dell’anno scorso una nuova impennata lo portava a 91 dollari per superare i 100 (120 per il “brent” del Mare del Nord: è un record anche dello “spread” con i prezzi degli altri tipi di greggio) durante la rivolta contro Gheddafi (quotazioni del 24 febbraio). La crisi in Libia, il paese africano più ricco di riserve e da cui l’Italia acquista il 20-23 per cento delle sue importazioni complessive di greggio e il dieci per cento del gas, ha già dato un suo contributo al balzo delle quotazioni, fors’anche al di là del ragionevole, considerato il peso specifico di quel paese la cui produzione di greggio non supera il due per cento di quella mondiale (assommando quelle degli altri Stati nordafricani scossi dai venti rivoluzionari, non si supera il 5-6 per cento). La corsa delle materie prime non alimentari ha anch’essa varie spiegazioni. La principale è che in particolare i paesi del cosiddetto gruppo Bric (Brasile, Russia, India e Cina) conoscono uno sviluppo sostenuto e sospingono una richiesta di materie prime che fa esplodere i prezzi.

Petrolio a parte, secondo una recentissima rilevazione di Prometeia, nel gennaio 2011, rispetto al mese precedente, in Italia abbiamo avuto ulteriori aumenti per numerose materie prime: nel comparto dell’industria alimentare gli acquisti hanno subìto un incremento medio del dieci per cento (in un mese!), in particolare il grano ha fatto segnare un più 16; nella meccanica gli acciai piani sono cresciuti del 7,5; nella chimica gli organici di base hanno fatto un salto del nove per cento; il cotone ha fatto un altro gradino in salita, più 5,4, e via aumentando.

Nell’ultima settimana, ma potrebbe trattarsi di una rondine che non fa primavera, alcuni prezzi di generi alimentari sono per la verità diminuiti, primo fra tutti quelli del grano. Non si può comunque ancora parlare di un rovesciamento di tendenza e gli esperti ritengono che questi ribassi siano dovuti al timore che il forte aumento del prezzo del petrolio, sommato alle rivoluzioni in corso, finiscano per innescare un crollo della domanda. Staremo a vedere se prevarrà la padella dell’inflazione o la brace della recessione. O se siamo di fronte a una miscela ancora più esplosiva e dovremo rispolverare una parola dimenticata da tempo: stagflazione, il peggiore dei mali.

Per ora, comunque, è l’ascesa dei prezzi a costituire il maggior rischio. Ai fattori citati si può aggiungere che le politiche di risanamento dei bilanci pubblici, statali e locali, quando non si traducano in tagli al welfare ma piuttosto in aumenti delle tariffe dei servizi pubblici, come sta avvenendo in Italia, finiscono per dare un ennesimo contributo al carovita. La Bce si troverà presto, forse prima del previsto, a dover prendere decisioni difficili sui tassi di interesse. Tanto più difficili in quanto i paesi della zona euro non vivono affatto una congiuntura “omogenea”, bensì una divaricazione strutturale. La Germania è in netta crescita, il pil ha segnato l’anno scorso un più 3,6 per cento, il valore più alto dalla riunificazione, la disoccupazione è modesta e si manifestano tensioni sindacali-salariali. Fra breve l’economia tedesca potrebbe surriscaldarsi e aver bisogno di una stretta dei tassi, anche per contrastare la tanto temuta inflazione. Al contrario, parecchi paesi più deboli dell’eurozona vivono ancora in mezzo al guado, non hanno superato del tutto la recessione, la disoccupazione è elevata e la ripresa abbisogna di altro tempo e di una politica monetaria accomodante. Come si vede, scelte difficilissime per l’ultimo tratto del mandato di Trichet e per il prossimo presidente della Bce. E adesso, povero Draghi?

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