Pensioni. Tagli. I disegni di legge: testi e relazioni integrali

Questi sono i testi dei disegni di legge, con relativa relazione, che sono stati presentati, per ridurre, tagliare, ridimensionare le pensioni, anche quelle di chi per decenni ha versato contributi ben superiori al vitalizio poi ricevuto.

CAMERA DEI DEPUTATI

1. PROPOSTA DI LEGGE N. 1842

d’iniziativa dei deputati

AIRAUDO, DI SALVO, PLACIDO (SEL)

Istituzione di un fondo per il finanziamento di interventi di solidarietà e di equità previdenziale

Presentata il 25 novembre 2013

Onorevoli Colleghi! I mutamenti intervenuti nell’organizzazione delle attività produttive e nella disciplina dei rapporti di lavoro hanno esteso il numero di coloro che prestano la loro attività non sulla base di un contratto di lavoro a tempo indeterminato, ma in forma temporanea e discontinua, talora con periodi di ridotta occupazione o intervalli, anche prolungati, di completa inattività. Ciò determina rilevanti conseguenze sulla situazione contributiva di questi lavoratori e, in prospettiva, sull’entità del trattamento previdenziale del quale essi potranno beneficiare. Le difficoltà derivanti della situazione economica generale hanno poi esteso il numero di coloro i quali, pur godendo attualmente di trattamenti di pensione, per l’esiguità dei periodi di lavoro prestati o dei contributi versati o semplicemente a causa del diminuito valore reale della moneta, percepiscono importi che, nonostante l’applicazione dell’integrazione al trattamento minimo, risultano insufficienti a garantire il soddisfacimento delle fondamentali esigenze di vita.

Per sovvenire a queste situazioni, nelle quali non sono applicabili prìncipi di stretta giustizia distributiva, appare necessario ricorrere a strumenti correttivi di solidarietà e di perequazione, che promuovano una ragionevole redistribuzione di risorse correggendo situazioni di squilibrio insostenibile, a garanzia della dignità umana di ciascuna persona, ma anche dell’ordine e della stabilità complessiva del corpo sociale.

A ciò di collega – purché sia inteso rettamente come mezzo per realizzare iniziative di riforma sociale e non quale strumento di mera vessazione o populistico espediente per fomentare istinti di invidia sociale – il tema della riduzione dei trattamenti pensionistici di importo elevato – le cosiddette «pensioni d’oro» –, che continua a richiamare una forte attenzione da parte degli organi di informazione e dell’opinione pubblica, stimolando un ampio dibattito sui princìpi di equità e giustizia nell’erogazione di prestazioni previdenziali, anche in chiave intergenerazionale e di sostenibilità complessiva del sistema pensionistico.

Per quanto riguarda, in particolare, il tema delle misure peggiorative dei trattamenti con effetto retroattivo, la Corte costituzionale ha escluso, in linea di principio, che sia configurabile un diritto costituzionalmente garantito alla «cristallizzazione» normativa, riconoscendo quindi al legislatore la possibilità di intervenire con scelte discrezionali, purché ciò non avvenga in modo irrazionale e, in particolare, frustrando in modo eccessivo l’affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica con riguardo a situazioni sostanziali fondate sulla normativa precedente.

Quanto al contributo di solidarietà sulle pensioni di importo elevato, la Corte costituzionale si è a più riprese pronunziata inquadrandolo nel genus delle prestazioni patrimoniali imposte per legge – soggette per tale ragione al principio di eguaglianza e ai criteri della capacità contributiva e della progressività del sistema tributario – da ultimo con la sentenza n. 116 del 5 giugno 2013, con cui ha dichiarato l’illegittimità dell’articolo 18, comma 22-bis, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111, il quale introduceva un contributo di perequazione, a decorrere dal 1 agosto 2011 e fino al 31 dicembre 2014, sui trattamenti pensionistici corrisposti da enti gestori di forme di previdenza obbligatorie.

Dalle pronunzie della Corte costituzionale appare chiaro che interventi sulle pensioni di importo elevato, siano essi nella forma di imposizione di un contributo di solidarietà ovvero in quella dell’imposizione di un limite massimo d’importo, devono essere contestualmente operati anche sui redditi da lavoro.

Sul tema delle cosiddette «pensioni d’oro» molti politici stanno alimentando un dibattito meramente propagandistico, non fondato su alcuna obiettiva analisi dell’attuale situazione del sistema pensionistico italiano e disgiunto da qualunque seria riflessione sugli interventi necessari per affermare realmente e concretamente princìpi di equità e giustizia. È necessario partire dalla recente «riforma Fornero», che ha determinato molti guasti e tanti altri ne creerà se non verrà prontamente e strutturalmente riformata a sua volta. Ci sono almeno 390.000 lavoratori esodati ridotti sul lastrico; mancano del tutto meccanismi di solidarietà interni al sistema, che sarebbero invece necessari soprattutto per i lavoratori giovani, per quelli atipici e per le donne che hanno subìto la violenza di un innalzamento di cinque anni dell’età pensionabile, misura derivante da un’idea negativa della parità senza riconoscimento alcuno del valore sociale ed economico dei lavori di cura; si è previsto un significativo innalzamento dell’età pensionabile per tutti, creando un sistema rigido che non consente un’uscita flessibile dal mondo del lavoro.

La «riforma Fornero», contenuta nel decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214 (cosiddetto «Salva Italia»), era accompagnata da una relazione tecnica che indicava risparmi per circa 22 miliardi di euro nel periodo 2012-2021, ma il rapporto dell’area attuariale dell’INPS del giugno 2013 ha indicato una previsione di risparmi addirittura superiore a 90 miliardi di euro per lo stesso periodo. Il sistema previdenziale è stato utilizzato come un bancomat» da parte dello Stato e i risparmi non sono stati destinati a migliorare la condizione della vastissima platea di pensionati italiani che percepisce pensioni di importo basso o bassissimo, al di sotto della soglia della povertà.

È una storia triste che, peraltro, si ripete: dobbiamo constatare come tutti gli ingentissimi risparmi successivamente conseguiti con le varie riforme pensionistiche fatte negli ultimi anni siano stati assegnati o alla riduzione del deficit» oppure ad esigenze considerate «più importanti». Un caso eclatante è accaduto con i risparmi generati dall’aumento dell’età di pensionamento delle donne che, a norma dell’articolo 22-ter del decreto-legge 1 luglio 2009, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 3 agosto 2009, n. 102, dovevano essere destinati a «politiche sociali e familiari»: sono invece finiti nel calderone della finanza pubblica, a finanziare tutt’altro.

Occorre cambiare l’inutile «riforma Fornero», quindi, e ricordare le importantissime riforme pensionistiche che abbiamo fatto nei decenni passati, che hanno drasticamente ridotto sia gli andamenti futuri sia quelli correnti della spesa. In termini nominali, la spesa pensionistica sta aumentando di anno in anno poco più dell’inflazione e comunque molto meno che negli altri Paesi: fra il 2003 e il 2010, secondo i dati dell’Eurostat, è aumentata in media del 3,8 per cento all’anno in Italia, contro il 6,8 per cento del Regno Unito, il 4,3 per cento della Svezia, il 4,9 per cento della Francia, l’8,1 per cento della Spagna e il 5,5 per cento della Danimarca (fa eccezione la Germania, con un aumento annuo dell’1,4 per cento).

Vero è che, secondo i più recenti dati dell’Eurostat, relativi al 2010, spendiamo per le pensioni il 16 per cento del prodotto interno lordo, contro il 13,2 per cento dei Paesi dell’Europa a quindici e il 13 per cento dei Paesi dell’Europa a ventisette. Va tuttavia considerato che il dato del 16 per cento riferito all’Italia è falsato e la percentuale è decisamente più bassa in quanto:

nel calcolo della spesa previdenziale italiana, ma non in quella degli altri Paesi, figura il trattamento di fine rapporto, che viceversa rappresenta una parte differita della retribuzione;

abbiamo una percentuale di ultrasessantacinquenni più elevata degli altri Paesi, il che inevitabilmente determina la presenza di un numero maggiore di pensionati;

si tratta di spesa calcolata al lordo delle trattenute fiscali: le nostre pensioni sono invece assoggettate all’imposta sul reddito, a differenza di altri Stati ove ne sono praticamente esenti (vedi Germania);

non si è considerata la spesa per sgravi fiscali destinati alla previdenza privata, particolarmente elevata nei Paesi anglosassoni.

In rapporto al prodotto interno lordo, a legislazione vigente, la spesa pensionistica è destinata a contrarsi significativamente a partire dal 2014, come si può constatare dalla nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza presentata dal Governo lo scorso settembre. Come per tutti i rapporti calcolati rispetto al prodotto interno lordo, poi, il rapporto fra spesa pensionistica e prodotto interno lordo risente della contrazione del denominatore, ovvero della crisi economica. Se il prodotto interno lordo non si fosse contratto per la recessione, il rapporto con la spesa pensionistica sarebbe inferiore di almeno un punto. A differenza di quanto si poteva scrivere una decina di anni fa, la nostra spesa pensionistica appare elevata soprattutto perché l’economia non cresce, non perché siamo troppo generosi.

Il quadro illustrato denunzia quanto il dibattito sulle cosiddette «pensioni d’oro», così come affrontato, risulti superficiale. Il disegno di legge di stabilità 2014 prevede la sospensione dell’indicizzazione delle pensioni di importo superiore a 3.000 euro, vale a dire un taglio a una parte delle pensioni in essere. Da più parti si parla e si propone di ridurre le pensioni erogate il cui importo risulti superiore a un determinato limite, considerate in ogni caso «pensioni d’oro». Tale proposta è basata su una confusione evidente tra alto rendimento dei contributi versati e alto livello della pensione. Spesso i due aspetti sono disgiunti.

I sistemi pensionistici retributivi e contributivi sono due differenti sistemi a ripartizione. Nel sistema retributivo l’obiettivo non è quello di assicurare un eguale tasso di rendimento a tutti i lavoratori, ma quello di stabilire una relazione tra gli importi della prima pensione e delle ultime retribuzioni percepite. Il sistema permette trasferimenti di risorse a fini equitativi. Chi beneficia di questi trasferimenti avrà un rendimento più alto rispetto a chi cede parte delle risorse. Se la media del sistema ha un rendimento dei contributi effettivamente versati pari al tasso di crescita del prodotto interno lordo (o meglio della massa salariale), il sistema è in equilibrio (tranne che per gli effetti di eventuali fluttuazioni demografiche).

Il nuovo sistema pensionistico contributivo introdotto nel 1995 si basa su un principio di equità attuariale, per cui dovrebbe tendere a erogare prestazioni commisurate ai contributi versati. Il fatto è, però, che dietro quest’apparenza si nascondono dettagli di non poco conto, anche a prescindere dalla salvaguardia dei diritti acquisiti che, peraltro, in ambito pensionistico, dove i soggetti interessati sono avanti negli anni, richiede necessariamente una particolare attenzione.

Innanzitutto, non è vero che un sistema retributivo, come quello adottato fino al 1995, sia necessariamente più generoso del sistema contributivo: a seconda dei parametri utilizzati, i due sistemi possono produrre risultati equivalenti, mentre, se il sistema retributivo tende a premiare le carriere dinamiche, il sistema contributivo tende a premiare le carriere piatte. Non ci si avvede che è falso affermare che il sistema contributivo restituisce pensioni corrispondenti ai contributi versati: è facile mostrare che, quando si considerano anche le prestazioni assistenziali, il sistema contributivo penalizza soprattutto i più poveri che, malgrado gli anni e i decenni di contributi versati, rischiano di maturare pensioni di poco superiori all’assegno sociale, ovvero di maturare rendimenti addirittura negativi sui propri contributi, con un sostanziale incentivo ad entrare o a rimanere nell’economia sommersa (si confronti ad esempio Marano, Mazzaferro e Morciano, Rivista degli economisti, 2012, pagina 71).

Secondo gli economisti Paladini e Vincenzo Visco, l’elemento che ha il maggior peso nella differenza tra i sistemi retributivo e contributivo è costituito dagli anni di vita attesi, cioè dall’età del pensionamento. Questo elemento conta più della velocità di progressione della retribuzione. A questo proposito non va dimenticato che in molti casi la scelta del pensionamento non è stata spontanea, ma necessitata: infatti una significativa quota delle ristrutturazioni industriali è stata fatta nei decenni passati usando il sistema pensionistico, a volte con misure ad hoc (prepensionamenti). Operai, impiegati, ma anche dirigenti sono stati messi in pensione, che lo volessero o meno.

L’idea di fissare un valore limite (sia esso 3.000 euro o più al mese) e di applicare un taglio solo alle pensioni che superano la soglia è errore logico che diventa un vizio giuridico. Lo stesso vale per il blocco dell’indicizzazione al di sopra di un dato livello.

Va evidenziato, inoltre, che da un prelievo forzoso sulle sole pensioni elevate non possono derivare grandi risorse; il contributo di solidarietà inserito nel disegno di legge di stabilità 2014 (articolo 12, comma 4, del testo del Governo, che appare incostituzionale alla luce della giurisprudenza della Corte costituzionale) prevede un contributo del 5 per cento sulle pensioni superiori a 150.000 euro annui, del 10 per cento sulla parte eccedente 200.000 euro e del 15 per cento sulla parte eccedente 250.000 euro: ciò avrebbe, secondo la relazione tecnica dello stesso Governo, effetti risibili, pari a 12 milioni di euro all’anno al netto del prelievo fiscale; anche ammettendo soluzioni più radicali, quali quelle ipotizzate da Boeri e Nannicini nel sito internet lavoce.info, si arriverebbe a un gettito di 800-900 milioni, quasi dimezzato, tuttavia, da quella che sembrerebbe la mancata considerazione da parte degli economisti suddetti della perdita di gettito fiscale associata alla connessa riduzione degli imponibili agli effetti dell’imposta sul reddito. Con tali risorse non si risolve, né in parte, né in tutto, il problema di innalzare gli importi pensionistici delle pensioni minime, considerato che l’idea del contributo di solidarietà è quella di ridistribuirlo all’interno del sistema previdenziale a fini solidaristici.

Quanto all’equità della misura, sembra prevalere un populismo mischiato a falso egualitarismo: coloro che hanno conseguito pensioni elevate – salve eccezioni rare e davvero scandalose – sono in prevalenza persone che hanno percepito redditi molto elevati nel corso della loro vita lavorativa e contribuito conseguentemente, in accordo con regole che già prevedevano forme di solidarietà. Se si ritiene che sia ingiusto che esistano persone molto più ricche di altre, lo strumento a disposizione del pubblico è semplicemente la variazione delle aliquote fiscali: si proponga allora un aumento dell’aliquota sull’ultimo scaglione di reddito, senza discriminare fra ricchi pensionati e altri precettori di reddito, nel solco dei princìpi giuridici fissati dalla giurisprudenza costituzionale.

Il riconoscimento di un doveroso contributo di solidarietà in favore dei pensionati più poveri ricade tra le misure assistenziali che devono essere finanziate dalla fiscalità generale e da tutti i cittadini a secondo della loro capacità contributiva. Dagli anni ’80 ad oggi, mentre si sono ridimensionati servizi e spese sociali che andavano a beneficio delle fasce deboli della popolazione, in materia di entrate il prelievo fiscale si è spostato dai redditi più alti verso quelli medio-bassi, al punto che il rapporto tra le aliquote sui redditi minimi e le aliquote sui redditi massimi è passato da 1 a 7 ad 1 a 2. In questo periodo, l’aliquota sulle fasce medio basse è salita dal 10 per cento al 23 per cento, mentre per quelli alti è scesa dal 72 per cento al 43 per cento. La progressività del prelievo fiscale è stata, quindi, fortemente ridimensionata e questo è accaduto proprio nell’imposizione diretta, che rappresenta il principale strumento per correlare le imposte ai redditi. Tutti i redditi superiori a 75.000 euro annui lordi sono tassati con un’aliquota pari al 43 per cento, che rimane tale anche per redditi di molto superiori, vulnerando il criterio di progressività del sistema tributario, previsto dall’articolo 53 della Costituzione. Con l’innalzamento dell’aliquota sui redditi più alti, applicando il criterio della progressività, si realizzerebbe davvero una maggiore equità del sistema – andando a colpire anche le vere «pensioni d’oro» – e si darebbe corpo e consistenza ai princìpi di equità e giustizia. Con il gettito derivante dall’innalzamento dell’aliquota sui redditi più alti si potrebbero aumentare in misura permanente gli importi delle pensioni per tutti i pensionati più poveri, così incrementando i consumi e alleviando la situazione difficile di molte persone e famiglie.

La presente proposta di legge, al fine di realizzare interventi a favore degli iscritti alla Gestione separata dell’INPS, in particolare per i periodi di mancato lavoro, e di migliorare le prestazioni a favore dei soggetti la cui pensione è calcolata unicamente con il sistema contributivo, istituisce presso l’INPS un fondo, finanziato, per cinque anni con il ricorso a un’addizionale all’imposta sul reddito delle persone fisiche progressiva a carico dei redditi di lavoro e di pensione di importo superiore a 90.000 euro. La previsione di un’imposizione gravante sia sui redditi di lavoro che su quelli da pensione consente di rispettare i princìpi enunciati dalla Corte costituzionale nelle sentenze già richiamate.

La proposta di legge prevede la proroga dell’applicazione dell’addizionale fino alla realizzazione di una riforma del sistema previdenziale a fini di maggiore equità e solidarietà interna del sistema, in particolare in favore dei giovani lavoratori discontinui, delle donne e di chi effettua lavori di cura nonché dei titolari di trattamenti pensionistici integrati al minimo.

PROPOSTA DI LEGGE

Art. 1.

1. È istituito presso l’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) un fondo destinato all’accredito della contribuzione figurativa per periodi di mancato lavoro in favore degli iscritti alla Gestione separata di cui all’articolo 2, comma 26, della legge 8 agosto 1995, n. 335, e al miglioramento delle prestazioni in favore dei soggetti la cui pensione è calcolata esclusivamente con il sistema contributivo. Con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, previo parere delle Commissioni parlamentari competenti per materia, sono definiti i criteri per l’impiego del fondo.

2. Per il finanziamento del fondo di cui al comma 1 è istituita, per il periodo d’imposta in corso alla data di entrata in vigore della presente legge, in deroga alle disposizioni dell’articolo 3, comma 1, della legge 27 luglio 2000, n. 212, e per i quattro periodi d’imposta successivi, un’addizionale all’imposta sul reddito delle persone fisiche, applicata sui redditi di lavoro e di pensione di importo complessivamente superiore a 90.000 euro annui. Il gettito dell’addizionale è versato all’entrata del bilancio dello Stato per essere riassegnato al fondo di cui al comma 1. L’aliquota è stabilita nella misura dell’1 per cento sulla parte di reddito eccedente l’importo di 90.000 euro e fino all’importo di 120.000 euro lordi annui. L’aliquota è incrementata progressivamente dello 0,5 per cento per ciascuno dei successivi scaglioni di reddito, stabiliti nell’importo di 30.000 euro lordi annui oltre il limite dello scaglione precedente, ed è applicata, nella misura così determinata, sulla parte di reddito eccedente. Per la liquidazione, l’accertamento, la riscossione e il contenzioso riguardanti l’addizionale, si applicano le disposizioni previste per le imposte sui redditi. L’addizionale non è deducibile agli effetti delle imposte erariali sul reddito.

3. Entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, il Governo avvia un tavolo di confronto con le parti sociali al fine di predisporre una riforma organica e sistematica del sistema previdenziale ispirata a criteri di maggiore equità e solidarietà interna del sistema stesso, in particolare in favore dei giovani lavoratori discontinui, delle donne e di coloro che svolgono lavori di cura nonché dei titolari di trattamenti pensionistici integrati al minimo. Decorso il periodo stabilito al comma 2, l’efficacia delle disposizioni di cui al presente articolo è prorogata automaticamente per periodi annuali fino all’attuazione della riforma del sistema previdenziale.

 

2. PROPOSTA DI LEGGE N. 1785

d’iniziativa dei deputati GNECCHI, INCERTI, MAESTRI, GIACOBBE, CASELLATO, CENNI, SANI, CARRA, GHIZZONI, PETITTI, D’INCECCO, BOBBA, ZARDINI, IACONO, ARLOTTI, BARGERO, COMINELLI, AMODDIO, NICOLETTI, MANFREDI, BIONDELLI, ZAMPA, BASSO, VALERIA VALENTE, FABBRI, ROCCHI, RUBINATO (PD)

Istituzione di un contributo di solidarietà ed equità previdenziale nonché disposizioni in materia di perequazione automatica dei trattamenti pensionistici e delega al Governo in materia di previdenza per le nuove generazioni

Presentata l’11 novembre 2013

Onorevoli Colleghi! Il nostro sistema previdenziale è stato oggetto, nella scorsa legislatura, di molti interventi, ma, purtroppo, in modo disorganico e contraddittorio, senza valutarne gli effetti sulla vita delle persone e senza un vero e chiaro disegno riformatore. Il sistema previdenziale deve essere costantemente monitorato, a garanzia della sostenibilità del sistema stesso e soprattutto per garantire ai giovani di oggi un reddito da pensione che consenta loro una vecchiaia dignitosa. Esistono troppe aliquote diverse, troppi fondi e troppe differenze: si dovrebbe realmente procedere a una riforma organica e complessiva che porti a un sistema equo, assicuri garanzie per il futuro e, in particolare, protegga dall’utilizzo delle risorse del sistema previdenziale per far fronte alle esigenze di cassa o di copertura del debito pubblico o delle emergenze. Già il legislatore, con la legge n. 247 del 2007, unica riforma che ha trovato consenso e che è stata condivisa dopo un lungo confronto con le parti sociali, e, in dettaglio, con l’articolo 1, comma 12, ha cercato di porre le basi per affrontare organicamente le criticità del nostro sistema pensionistico, sia rispetto alla sua sostenibilità, sia per approntare idonee misure che garantiscano alle nuove generazioni un tasso di sostituzione non inferiore al 60 per cento dell’ultima retribuzione. È sicuramente da questo che si dovrebbe ripartire.

A tale riguardo appare utile riportare letteralmente il dispositivo del citato comma 12: «Con decreto del Ministro del lavoro e della previdenza sociale, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, è costituita una Commissione composta da dieci esperti, di cui due indicati dal Ministero del lavoro e della previdenza sociale, due indicati dal Ministero dell’economia e delle finanze, sei indicati dalle organizzazioni dei lavoratori dipendenti e autonomi e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, con il compito di proporre, entro il 31 dicembre 2008, modifiche dei criteri di calcolo dei coefficienti di trasformazione di cui all’articolo 1, comma 6, della legge 8 agosto 1995, n. 335, nel rispetto degli andamenti e degli equilibri della spesa pensionistica di lungo periodo e nel rispetto delle procedure europee, che tengano conto: a) delle dinamiche delle grandezze macroeconomiche, demografiche e migratorie che incidono sulla determinazione dei coefficienti medesimi;

b) dell’incidenza dei percorsi lavorativi, anche al fine di verificare l’adeguatezza degli attuali meccanismi di tutela delle pensioni più basse e di proporre meccanismi di solidarietà e garanzia per tutti i percorsi lavorativi, nonché di proporre politiche attive che possano favorire il raggiungimento di un tasso di sostituzione al netto della fiscalità non inferiore al 60 per cento, con riferimento all’aliquota prevista per i lavoratori dipendenti;

c) del rapporto intercorrente tra l’età media attesa di vita e quella dei singoli settori di attività».

Purtroppo l’acuirsi della crisi economica di questi ultimi cinque anni, le modifiche sul regime pensionistico introdotte, in particolare dai decreti-legge n. 78 del 2010, convertito, con modificazioni, dalle legge n. 122 del 2010, e n. 201 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 214 del 2011, hanno per la prima volta prodotto il dramma dei cosiddetti «esodati» a causa della mancanza di gradualità, hanno scardinato alcuni istituti fondamentali del nostro sistema pensionistico, come ad esempio quello della ricongiunzione dei contributi o della costituzione della posizione contributiva presso l’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) in mancanza del diritto alla pensione in un altro fondo e, fatto ancora più grave, hanno innescato uno scontro generazionale fra lavoratori giovani e anziani nonché provocato un forte atteggiamento di rivalsa nei confronti di coloro che hanno fruito del trattamento pensionistico calcolato con il sistema retributivo. Vale la pena di ricordare che il calcolo retributivo esiste dal 1969 e che la legge n. 335 del 1995 ha creato una barriera tra chi aveva già maturato 18 anni di contributi al 31 dicembre 1995 e chi aveva iniziato a lavorare dopo il 1 gennaio 1996, creando una situazione di transizione con un calcolo misto retributivo e contributivo per chi non era compreso in tali ipotesi. Va anche precisato che quasi tutte le pensioni vigenti oggi sono calcolate con il sistema retributivo perché chi è andato in pensione con 40 anni di contributi o a 65 anni di età aveva 18 anni al 31 dicembre 1995 e quindi anche il calcolo misto riguarda una minoranza degli attuali pensionati.

Si deve inoltre intervenire sulle cosiddette «pensioni d’oro», individuando, però, esattamente la fascia da prendere in considerazione e la platea dei beneficiari, anche perché il problema reale in Italia sono le pensioni troppo basse con le quali la gente non riesce a vivere. Si è cercato di intervenire con un contributo di solidarietà, ma esso ha acuito lo scontro generazionale in atto, che bisogna invece evitare, avvalorando la falsa tesi che tutte le pensioni calcolate con il sistema retributivo sono un costo generale per la collettività.

Si deve invece recuperare lo spirito della legge n. 247 del 2007 e si devono individuare misure che ripristinino la solidarietà fra le generazioni e che permettano anche di realizzare una redistribuzione della ricchezza e di garantire prestazioni pensionistiche dignitose alle nuove generazioni.

Fra le misure possibili non si ritiene opportuno, sia perché difficilmente attuabile sia per l’oggettiva complessità sia per i possibili profili di incostituzionalità, la misura, sollecitata da più parti, di ricalcolare con il metodo contributivo le pensioni vigenti superiori a 10 volte il trattamento minimo, liquidate con il metodo retributivo. Si dovrebbero ricalcolare, in pratica, tutte le pensioni vigenti, ma è da rilevare che solo da pochi anni l’informatica permette di verificare le posizioni contributive, mentre fino a pochi anni fa si utilizzavano dati cartacei e, inoltre, nel pubblico impiego solo la quota di pensione dal 1993 è calcolata con il sistema retributivo, mentre la quota «A», fino al 31 dicembre 1992, seguiva altre regole.

Riteniamo invece possibile, se non addirittura auspicabile, l’introduzione di un contributo di solidarietà da applicare in modo progressivo sulle pensioni vigenti, a partire dai redditi da pensione 8 volte superiori al trattamento minimo. Le risorse ricavate dal contributo di solidarietà devono essere utilizzate per introdurre misure di sostegno e di compensazione delle prestazioni pensionistiche delle nuove generazioni.

Con una delega si attribuisce al Governo il compito di adottare misure idonee che consentano un’equa distribuzione della ricchezza fra i soggetti. Com’è noto, per quanto riguarda le pensioni vigenti è previsto che esse siano annualmente rivalutate secondo una percentuale stabilita annualmente dall’Istituto nazionale di statistica (ISTAT). La cosiddetta «perequazione» o «indicizzazione», negli ultimi anni, a causa delle restrittive politiche di bilancio, è stata garantita solo per le pensioni non superiori a 3 volte il trattamento minimo, lasciando immutati i redditi da pensione superiori. Per i pensionati, peraltro, l’attuale sistema di perequazione si sta dimostrando sempre più inadeguato a garantire il mantenimento del potere d’acquisto e pertanto si dovrebbe prevedere che, in aggiunta all’attuale sistema di calcolo per l’adeguamento delle pensioni, si riconosca, almeno in parte, anche un aumento automatico che recuperi la perdita del potere d’acquisto delle pensioni calcolato dall’ISTAT.

Con l’articolo 1 della proposta di legge, si introduce, dal 1 gennaio 2014 e per un periodo di cinque anni, un contributo di solidarietà di importo variabile, in modo da rispettare l’articolo 53 della Costituzione, a partire dai redditi da pensione superiori a 8 volte il trattamento minimo e si istituiscono fondi comuni per l’equità previdenziale presso gli enti previdenziali.

Con l’articolo 2, in attesa che si introduca un nuovo meccanismo di perequazione delle pensioni che garantisca anche il potere d’acquisto, si prevede, partendo dall’aliquota stabilita dall’ISTAT e quindi fermo restando quello che sarebbe l’onere conseguente per il bilancio dello Stato, che la percentuale di rivalutazione delle pensioni sia comunque più elevata a partire dai redditi più bassi, decrescendo per i redditi più elevati. Ad esempio, partendo da un’aliquota di rivalutazione definita dall’ISTAT dell’1,4 per cento, la stessa è elevata al 2 per cento per le pensioni superiori fino a 2 volte il trattamento minimo, a 1,8 per cento per quelle superiori fino a 3 volte e in modo decrescente per pensioni più elevate.

Con l’articolo 3 si prevede una delega al Governo affinché dia attuazione a quanto già previsto dalla legge n. 247 del 2007 e verifichi i risparmi attesi dalla manovra cosiddetta «Fornero», quantificati dal servizio attuariale dell’INPS in 80 miliardi di euro dal 2012 al 2021, per garantire, inoltre, che tali risparmi siano utilizzati per sostenere il sistema previdenziale.

PROPOSTA DI LEGGE

Art. 1.

(Contributo di solidarietà e istituzione di fondi comuni per l’equità previdenziale).

1. Al fine di contribuire all’equilibrio e all’equità del sistema previdenziale nonché di attuare misure di sostegno per le prestazioni previdenziali delle nuove generazioni, a partire dal 1 gennaio 2014 e per un periodo di cinque anni, è istituito un contributo progressivo di solidarietà a carico dei redditi da pensione.

2. Il contributo di solidarietà di cui al comma 1 è calcolato in relazione al loro rapporto con il trattamento minimo (TM) applicando le seguenti percentuali:

a) 0,50 per cento per gli importi da 8 fino a 10 volte il TM;

b) 0,75 per cento per gli importi superiori a 10 fino a 12 volte il TM;

c) 1 per cento per gli importi superiori a 12 fino a 14 volte il TM;

d) 1,25 per cento per gli importi superiori a 14 fino a 16 volte il TM;

e) 1,50 per cento per gli importi superiori a 16 fino a 18 volte il TM;

f) 2 per cento per gli importi superiori a 18 fino a 20 volte il TM;

g) 3 per cento per gli importi superiori a 20 fino a 25 volte il TM;

h) 4 per cento per gli importi superiori a 25 fino a 30 volte il TM;

i) 5 per cento per gli importi superiori a 30 fino a 35 volte il TM;

l) 6 per cento per gli importi superiori a 35 fino a 40 volte il TM;

m) 7 per cento per gli importi superiori a 40 fino a 45 volte il TM;

n) 8 per cento per gli importi superiori a 45 fino a 50 volte il TM;

o) 9 per cento per gli importi superiori a 50 fino a 55 volte il TM;

p) 10 per cento per gli importi superiori a 55 fino a 60 volte il TM;

q) 12 per cento per gli importi superiori a 60 fino a 70 volte il TM;

r) 14 per cento per gli importi superiori a 70 fino a 80 volte il TM;

s) 15 per cento per gli importi oltre 80 volte il TM.

3. Il gettito derivante dal contributo di solidarietà confluisce in fondi comuni per l’equità previdenziale appositamente istituiti presso gli enti previdenziali e finalizzati a garantire idonee misure di compensazione e di sostegno per le prestazioni previdenziali delle nuove generazioni.

Art. 2.

(Perequazione automatica delle pensioni).

1. Ferma restando la vigente disciplina sulla perequazione delle pensioni, tenuto conto della necessità di individuare meccanismi idonei a recuperare e a garantire il potere d’acquisto reale delle pensioni di importo medio o basso nonché una più equa distribuzione della ricchezza, in via sperimentale, per un periodo di cinque anni dalla data di entrata in vigore della presente legge, l’aliquota di rivalutazione definita annualmente dall’Istituto nazionale di statistica (ISTAT) è stabilita in relazione al rapporto del reddito da pensione con il TM, applicando le seguenti percentuali:

a) è maggiorata:

1) del 30 per cento per gli importi fino a 2 volte il TM;

2) del 20 per cento per gli importi superiori a 2 volte fino a 4 volte il TM;

b) è diminuita:

1) del 10 per cento per gli importi superiori a 4 fino a 6 volte il TM;

2) del 20 per cento per gli importi superiori a 6 fino a 8 volte il TM;

3) del 50 per cento per gli importi superiori a 8 fino a 10 volte il TM;

4) del 70 per cento per gli importi superiori a 10 fino a 20 volte il TM;

5) dell’80 per cento per gli importi superiori a 20 fino a 30 volte il TM;

6) del 90 per cento per gli importi oltre 30 volte il TM.

2. L’onere derivante dall’attuazione del comma 1 del presente articolo non può comunque essere superiore a quello previsto a carico del bilancio dello Stato a seguito dell’applicazione del meccanismo stabilito dall’articolo 34, comma 1, della legge 23 dicembre 1998, n. 448.

Art. 3.

(Delega al Governo in materia di previdenza per le nuove generazioni).

1. Il Governo è delegato ad adottare, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, uno o più decreti legislativi recanti norme per:

a) l’istituzione e la relativa disciplina dei fondi comuni per l’equità previdenziale di cui all’articolo 1, comma 3;

b) individuare misure idonee e meccanismi di tutela delle pensioni di importo più basso nonché meccanismi di solidarietà e di garanzia per tutti i percorsi lavorativi al fine di assicurare il raggiungimento di un tasso di sostituzione al netto della fiscalità non inferiore al 60 per cento, con riferimento all’aliquota prevista per i lavoratori dipendenti;

c) modificare la disciplina vigente sull’aspettativa di vita tenendo conto del rapporto tra l’età media attesa di vita e quella dei singoli settori di attività;

d) assicurare il monitoraggio costante dei risparmi conseguenti all’attuazione dell’articolo 24 del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, e successive modificazioni, al fine di valutare l’opportunità di una loro attribuzione all’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) per garantire un miglioramento dei coefficienti di calcolo per le pensioni liquidate con il calcolo contributivo.

2. Gli schemi dei decreti legislativi di cui al comma 1, corredati di relazione tecnica, sono trasmessi alle Camere ai fini dell’espressione dei pareri da parte delle Commissioni parlamentari competenti per materia e per i profili finanziari, che sono resi entro trenta giorni dalla data di trasmissione. Le Commissioni possono chiedere al Presidente della rispettiva Camera di prorogare di venti giorni il termine per l’espressione del parere qualora ciò si renda necessario per la complessità della materia o per il numero dei decreti legislativi. Qualora la proroga sia concessa, i termini per l’emanazione dei decreti legislativi sono prorogati di venti giorni. Decorso il termine previsto per l’espressione del parere o quello eventualmente prorogato, il decreto legislativo può essere comunque adottato.

 

3. PROPOSTA DI LEGGE C.1778 d’iniziativa dell’On. Massimiliano Fedriga (LN-Aut)

Introduzione di un limite di importo per i trattamenti pensionistici corrisposti da gestioni previdenziali pubbliche in base al metodo retributivo

Presentata il 7 novembre 2013

Onorevoli Colleghi! Siamo sempre più convinti del fallimento della riforma Fornero del sistema pensionistico: un fallimento su tutti i fronti, da quello economico a quello sociale. È stata una riforma che ha tradito il patto intergenerazionale, ha ingannato i lavoratori e ha colpito i pensionati di fascia medio-bassa.

I percettori di trattamenti alti, i cosiddetti «pensionati d’oro», invece, sono stati ancora una volta salvaguardati. Un intervento in un’ottica di solidarietà era stato attuato con il decreto-legge n. 98 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 111 del 2011, che, all’articolo 18, comma 22-bis, aveva previsto in via provvisoria dal 1 agosto 2011 fino al 31 dicembre 2014 un contributo di perequazione pari, rispettivamente, al 5 per cento della parte eccedente l’importo fino a 90.000 euro, al 10 per cento per la parte eccedente 150.000 euro e al 15 per cento per la parte eccedente 200.000 euro. Ma la Corte costituzionale, con la sentenza n. 116 del 2013, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del comma 22-bis rilevando che il prelievo straordinario su tali pensioni costituiva un intervento impositivo «irragionevole e discriminatorio», realizzato ai danni di una sola categoria di cittadini, i pensionati, e che si poneva in contrasto con gli articoli 3 e 53 della Costituzione, rispettivamente sul principio di uguaglianza e sulla capacità contributiva come fondamento del prelievo tributario. Purtroppo i giudici non hanno tenuto conto che quelle pensioni già rappresentano una disparità tra cittadini, una inaccettabile disuguaglianza tra chi percepisce una pensione calcolata secondo il metodo retributivo e chi, invece, la percepisce secondo il metodo contributivo. Non possiamo ignorare che quei trattamenti non sono frutto di accantonamenti «personali», secondo la ratio per cui un pensionato percepisce quanto versato nell’arco della vita lavorativa, ma sono pagati dai versamenti dei lavoratori attivi. Ciò rappresenta già di per sé un’ingiustizia sociale, un’iniquità nei confronti di coloro ai quali è stato applicato un altro metodo di calcolo solo perché sono andati in pensione giù tardi, nei confronti dei molti lavoratori attivi sulle cui spalle grava il mantenimento di simili privilegi e nei confronti dei percettori delle pensioni minime, con le quali è

impossibile mantenersi specie nell’attuale periodo di grave crisi economica.

Lo stesso Ministro del lavoro e delle politiche sociali, ricordiamo, ha recentemente definito questi trattamenti «quelle pensioni il cui elevato importo appare stridente nell’attuale contesto socio-economico e di sacrifici imposti alla generalità della popolazione». Per questo motivo riteniamo doveroso intervenire con la presente iniziativa legislativa, il cui articolo unico è finalizzato a porre un limite alle pensioni pubbliche corrisposte esclusivamente in base al metodo retributivo.

PROPOSTA DI LEGGE

Art. 1.

1. Le pensioni e i vitalizi erogati da gestioni previdenziali pubbliche in base al metodo retributivo non possono superare i 5.000 euro netti mensili. Sono fatti salvi le pensioni e i vitalizi corrisposti esclusivamente in base al metodo contributivo.

2. Qualora il trattamento di cui al comma 1 sia cumulato con altri trattamenti pensionistici corrisposti da gestioni previdenziali pubbliche in base al metodo retributivo, l’ammontare onnicomprensivo ai tali trattamenti non può superare gli 8.000 euro netti mensili.

4. PROPOSTA DI LEGGE N. 1253

d’iniziativa dei deputati GIORGIA MELONI, CIRIELLI, CORSARO, LA RUSSA, MAIETTA, NASTRI, RAMPELLI, TAGLIALATELA, TOTARO (FRATELLI D’ITALIA)

Disposizioni in materia di pensioni superiori a dieci volte l’integrazione al trattamento minimo INPS

Presentata il 21 giugno 2013

Onorevoli Colleghi! È notizia degli scorsi giorni che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 116 del 2013, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 18, comma 22-bis, del decreto-legge n. 98 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 111 del 2011, con il quale era stato disposto, in via provvisoria dall’agosto 2011 fino al 31 dicembre 2014, un taglio a tutte le pensioni pubbliche e private superiori a 90.000, 150.000 e 200.000 euro lordi l’anno; su esse veniva, infatti, a gravare un contributo di perequazione pari, rispettivamente, al 5 per cento della parte eccedente l’importo fino a 90.000 euro, al 10 per cento per la parte eccedente 150.000 euro e al 15 per cento per la parte eccedente 200.000 euro.

Il prelievo dichiarato illegittimo rispetto a norme di rango costituzionale andava, quindi, a incidere sull’annosa questione delle cosiddette «pensioni d’oro», ossia le pensioni che sono state recentemente definite dallo stesso Ministro del lavoro e delle politiche sociali «quelle pensioni il cui elevato importo appare stridente nell’attuale contesto socio-economico e di sacrifici imposti alla generalità della popolazione», e che sono percepite da centinaia di magistrati, ambasciatori, docenti universitari, alti funzionari, avvocati dello Stato, dirigenti pubblici, ammiragli, generali, giornalisti, notai, manager pubblici e privati.

Com’è noto, con la sua pronuncia la Consulta ha rilevato che il prelievo straordinario su tali pensioni costituiva un intervento impositivo «irragionevole e discriminatorio», realizzato ai danni di una sola categoria di cittadini, i pensionati, e che si poneva in contrasto con gli articoli 3 e 53 della Costituzione, rispettivamente sul principio di eguaglianza e sulla capacità contributiva come fondamento del prelievo tributario.

Quello che, tuttavia, a nostro avviso non è stato considerato, è che quei trattamenti pensionistici sono, in realtà, essi stessi la manifestazione di una gravissima disparità tra cittadini: la disparità che si è venuta a determinare tra chi gode di un sistema pensionistico erogato secondo il metodo retributivo e chi percepisce una pensione calcolata secondo il metodo contributivo. I trattamenti pensionistici elevati traggono origine in larghissima parte da una modalità di calcolo retributiva, vale a dire che i loro percettori godono di un assegno pensionistico mensile che non esprime una proporzione con quanto versato agli enti gestori delle forme pensionistiche.

Questo, a nostro modo di vedere, costituisce una gravissima ingiustizia. Un’ingiustizia nei confronti di coloro al quali è stato applicato un altro metodo di calcolo, solo perché sono andati in pensione più tardi, e un’intollerabile ingiustizia nei confronti dei giovani che oggi lavorano anche per mantenere simili incredibili privilegi, e che probabilmente una pensione propria non l’avranno mai. È un’ingiustizia nei confronti dei percettori delle pensioni minime, con le quali è impossibile garantirsi un sostentamento, e dei percettori delle pensioni di invalidità. Ed è un’ingiustizia, infine, nei confronti dei bambini che nascono oggi e che si trovano già gravati da un debito di oltre 30.000 euro.

Da quando ha avuto inizio la presente legislatura, il nostro gruppo parlamentare ha interrogato già per due volte, in sede di question-time, il Ministro del lavoro e delle politiche sociali, al fine di capire quali siano le intenzioni del Governo rispetto a tale questione. Noi siamo, infatti, fortemente critici sia verso queste pensioni in sé, sia verso la timidezza con la quale il Governo affronta il problema. La gravità del momento economico rende necessario intervenire su una questione così delicata ed economicamente così gravosa; queste pensioni costano all’erario più di 10 miliardi di euro all’anno. E se sappiamo che il Ministro condivide la nostra opinione, perché ha avuto modo di dichiararlo sia in Assemblea, sia a mezzo della stampa, sappiamo anche che sostiene la tesi di coloro che ritengono il privilegio delle pensioni d’oro un privilegio inattaccabile, un privilegio al quale ci si può solo rassegnare perché esprime posizioni soggettive consolidate nel tempo e maturate sulla base di disposizioni legislative all’epoca vigenti.

Ebbene, noi non intendiamo rassegnarci, e nemmeno vogliamo attendere che l’intervenuto cambiamento del metodo di calcolo per l’erogazione delle pensioni, agganciandole unicamente agli importi di contribuzione realmente versati, attenui progressivamente il fenomeno fino a eliminarlo. Ed è per questo che presentiamo la proposta di legge, composta da un unico articolo, con il quale si prevede, al comma 1, che le pensioni che eccedono il valore di oltre dieci volte la pensione minima siano ricalcolate e corrisposte secondo il sistema contributivo, di modo che, oltre tale importo, i soggetti interessati percepiscano una differenza in proporzione solo ed esclusivamente a quanto da loro effettivamente versato agli enti pensionistici durante il loro percorso lavorativo. Prevediamo, inoltre, al comma 2, una clausola di salvaguardia e, al comma 3, che le somme in tal modo risparmiate siano destinate a finanziare interventi di perequazione delle pensioni minime, degli assegni sociali e delle pensioni di invalidità.

Proponiamo queste disposizioni perché desideriamo una società che rispetti criteri di equità e che combatta i privilegi, esaltando, invece, il merito, come principio che dovrà illuminare il percorso formativo e professionale dalle nostre giovani generazioni.

PROPOSTA DI LEGGE

Art. 1.

1. I trattamenti pensionistici obbligatori, integrativi e complementari, i trattamenti erogati da forme pensionistiche che garantiscono prestazioni definite in aggiunta o ad integrazione del trattamento pensionistico obbligatorio, ivi comprese quelle di cui ai decreti legislativi 20 novembre 1990, n. 357, 16 settembre 1996, n. 563, e 5 dicembre 2005, n. 252, nonché i trattamenti che assicurano prestazioni definite per i dipendenti delle regioni a statuto speciale e degli enti di cui alla legge 20 marzo 1975, n. 70, ivi compresi quelli derivanti dalla gestione speciale ad esaurimento di cui all’articolo 75 del decreto del Presidente della Repubblica 20 dicembre 1979, n. 761, e quelli erogati dalle gestioni di previdenza obbligatorie presso l’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) per il personale addetto alle imposte di consumo, per il personale dipendente dalle aziende private del gas e per il personale già addetto alle esattorie e alle ricevitorie delle imposte dirette, con esclusione delle prestazioni di tipo assistenziale, degli assegni straordinari di sostegno del reddito, delle pensioni erogate alle vittime del terrorismo e delle rendite erogate dall’Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro, i cui importi, alla data di entrata in vigore della presente legge, risultino superare complessivamente, anche in caso di cumulo di più trattamenti pensionistici, dieci volte l’integrazione al trattamento minimo dell’INPS, sono ricalcolati e corrisposti secondo il sistema contributivo di cui alla legge 8 agosto 1995, n. 335.

2. I trattamenti pensionistici ricalcolati a seguito dell’applicazione delle disposizioni del comma 1 non possono essere comunque inferiori a dieci volte il trattamento minimo dell’INPS.

3. I risparmi di spesa conseguiti attraverso l’applicazione delle disposizioni dei commi 1 e 2 sono destinati a misure di perequazione dell’integrazione al trattamento minimo dell’INPS, dell’assegno sociale e dei trattamenti corrisposti ai sensi della legge 12 giugno 1984, n. 222.

 

5. PROPOSTA DI LEGGE n. 1180

d’iniziativa dei deputati RUOCCO, CANCELLERI, FICO, CHIMIENTI, VILLAROSA, BARBANTI

Introduzione di un limite massimo dei trattamenti economici erogati dalle amministrazioni statali e divieto di cumulo tra pensioni e redditi di lavoro

Presentata il 10 giugno 2013

Onorevoli Colleghi! Com’è noto, nel corso della passata legislatura è stata particolarmente attuale la questione dell’introduzione di un limite agli emolumenti erogati dalle amministrazioni statali per rapporti di lavoro dipendente o autonomo, anche nell’ambito di società a partecipazione pubblica.

In particolare, l’articolo 23-ter del decreto-legge n. 201 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 214 del 2011, ha prescritto l’emanazione di un decreto del Presidente del Consiglio dei ministri per la definizione del trattamento economico di chiunque riceva emolumenti o retribuzioni nell’ambito di rapporti di lavoro dipendente o autonomo con amministrazioni statali, compreso il cosiddetto «personale non contrattualizzato». Tale norma è stata attuata con il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 23 marzo 2012, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 89 del 16 aprile 2012, che definisce, in relazione alle diverse funzioni svolte, il trattamento economico erogabile, utilizzando come parametro massimo di riferimento il trattamento economico del Primo presidente della Corte di cassazione, che si aggiunge all’ulteriore limite sulle somme che possono essere corrisposte ai dipendenti delle amministrazioni statali che siano chiamati a svolgere funzioni direttive dirigenziali o equiparate presso Ministeri o enti pubblici nazionali, comprese le autorità amministrative indipendenti: questi soggetti – se conservano il trattamento economico riconosciuto dall’amministrazione di appartenenza – non possono ricevere a titolo di retribuzione, indennità, o anche solo per il rimborso delle spese, più del 25 per cento dell’ammontare complessivo del trattamento economico già percepito (articolo 23-ter, comma 2).

Successivamente, l’articolo 2, commi 20-quater e 20-quinquies, del decreto-legge n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 135 del 2012, ha introdotto il limite agli stipendi dei manager pubblici, per il quale l’articolo 23-bis del decreto-legge n. 201 del 2011 rinviava all’attuazione da parte di fonte regolamentare, prevedendo che i compensi degli amministratori investiti di particolari cariche delle società non quotate, direttamente o indirettamente controllate dalle amministrazioni statali, nonché i trattamenti economici annui onnicomprensivi dei dipendenti di tali società non possano essere superiori al trattamento economico del Primo presidente della Corte di cassazione.

Occorre evidenziare come tale limite sia al momento vicino a 300.000 euro lordi annui: si tratta di un importo ancora molto elevato che, in un momento di grave crisi economica e finanziaria come quello attuale, può essere ulteriormente ridefinito per liberare risorse da destinare alle fasce di popolazione più bisognose.

La presente proposta di legge si propone quindi di ridurre tale limite di un terzo, portandolo a 200.000 euro. Viene inoltre specificato che nell’ambito di tale importo sono compresi tutti gli emolumenti corrisposti a qualsiasi titolo dalle amministrazioni statali, compresi eventuali trattamenti di quiescenza, indennità e voci accessorie nonché eventuali remunerazioni per incarichi ulteriori o consulenze conferiti da amministrazioni statali diverse da quella di appartenenza.

Un secondo intervento, volto a calmierare la dinamica delle retribuzioni pubbliche, riguarda il cumulo tra pensione e redditi da lavoro autonomo o dipendente.

In tale ambito, nel corso della legislatura appena conclusa, si è andati verso la totale abolizione – a opera dell’articolo 19 del decreto-legge n. 112 del 2008, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 133 del 2008 – di tale divieto, in tal modo determinando nuovi e maggiori oneri per la finanza pubblica: nella relazione tecnica allegata al medesimo decreto-legge si stimava in circa 300 milioni di euro annui l’ammontare delle trattenute per divieto di cumulo.

Con l’articolo 19 è stata infatti introdotta la totale cumulabilità dal 1 gennaio 2009 delle pensioni di anzianità (a carico di tutte le forme di assicurazione generale obbligatoria) con i redditi da lavoro autonomo o dipendente. In sostanza, tutte le pensioni di anzianità (o altrimenti definite, caratterizzate cioè dall’essere anticipate rispetto all’età prevista dalla legge per il conseguimento della pensione di vecchiaia), godono dello stesso regime di totale cumulabilità con i redditi da lavoro autonomo o dipendente, indipendentemente dal regime pensionistico (retributivo, contributivo o misto) al quale appartengano.

Il divieto di cumulo resta fermo, tuttavia, nei confronti dei pubblici dipendenti, nel caso in cui siano riammessi in servizio presso le amministrazioni statali. L’articolo 19, comma 3, infatti, ha previsto che restano ferme le disposizioni dell’articolo 4 del decreto del Presidente della Repubblica n. 758 del 1965, il quale prevede che il cumulo di una pensione con un trattamento per un’attività resa presso le pubbliche amministrazioni non sia ammesso nei casi in cui il nuovo servizio prestato costituisca una derivazione, una continuazione o un rinnovo del rapporto precedente che ha dato luogo alla pensione.

L’abolizione del divieto di cumulo con gli altri redditi non tocca i soggetti titolari di pensione ai superstiti (pensioni di reversibilità) e degli assegni di invalidità (divieti previsti dalla legge n. 335 del 1995 e rimasti in vigore oltre il 31 dicembre 2008). In questo caso, il soggetto interessato si troverà costretto a rinunciare a una parte della propria pensione o rendita in caso di reddito superiore a determinati livelli.

I risparmi derivanti dall’attuazione della presente proposta di legge sono riassegnati a un fondo da destinare al finanziamento, anche mediante concessione di credito a condizioni agevolate, alle microimprese, secondo la definizione di cui alla raccomandazione 2003/361/CE della Commissione, del 6 maggio 2003, cioè le imprese che occupano meno di dieci addetti e che realizzano un fatturato annuo un totale di bilancio annuo non superiore a 2 milioni di euro.

PROPOSTA DI LEGGE

Art. 1.

(Limite massimo retributivo).

1. In considerazione del protrarsi della grave crisi economica e finanziaria, a decorrere dalla data di entrata in vigore della presente legge e fino al 31 dicembre 2015, il trattamento economico annuo onnicomprensivo di chiunque riceve a carico delle finanze pubbliche emolumenti o retribuzioni nell’ambito di rapporti di lavoro dipendente o autonomo con amministrazioni statali, compresi eventuali trattamenti di quiescenza, indennità e voci accessorie nonché eventuali remunerazioni per incarichi ulteriori o per consulenze conferiti da amministrazioni statali diverse da quella di appartenenza, non può superare l’importo di 200.000 euro.

Art. 2.

(Cumulo tra pensione e redditi da lavoro).

1. La pensione di vecchiaia di cui all’articolo 24, commi 6, 7, 8 e 9, e la pensione anticipata di cui al medesimo articolo 24, commi 10 e 11, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, non sono cumulabili con redditi da lavoro dipendente o da lavoro autonomo.

Art. 3.

(Istituzione di un fondo per le microimprese).

1. I risparmi derivanti dall’attuazione degli articoli 1 e 2 sono versati all’entrata del bilancio per essere riassegnati a un fondo da destinare al finanziamento, anche mediante concessione di credito a condizioni agevolate, alle microimprese, secondo la definizione di cui alla raccomandazione 2003/361/CE della Commissione, del 6 maggio 2003.

2. Con decreto del Ministro dello sviluppo economico sono stabilite le modalità di funzionamento del fondo di cui al comma 1.

 

Senato della Repubblica

6. DISEGNO DI LEGGE N. 637

d’iniziativa dei senatori NENCINI e Fausto Guilherme LONGO

COMUNICATO ALLA PRESIDENZA IL 30 APRILE 2013

Disposizioni per la riduzione delle pensioni e delle retribuzioni dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche, nonché in materia di soppressione dei benefici accessori

Onorevoli Senatori. — Lo scenario macroeconomico, che caratterizza questo inizio di anno per il nostro Paese, segnala il perdurare della grave crisi che l’affligge ormai da un quinquennio e non offre segnali di risveglio per un’economia che non riesce ad agganciare il treno della ripresa avviatosi, seppur timidamente, negli USA e in Germania.

I vari indicatori economici, quali la caduta del fatturato e della produzione industriale, l’aumento della disoccupazione, il calo dei consumi privati, la stasi degli investimenti pubblici, la difficoltà di approvvigionamento finanziario per le imprese piccole e grandi, la chiusura di aziende artigiane e commerciali, testimoniano che la crisi in Italia sarà destinata a protrarsi ben oltre il 2013, come anche il Fondo monetario internazionale (FMI) ha recentemente affermato, prevedendo una contrazione del reddito prodotto pari a –1,5 per cento a fine anno e una timida ripresa nel 2014 intorno a + 0,5 per cento.

Non è azzardato prevedere nuovi interventi del Governo per fronteggiare una crisi destinata a falcidiare sempre più crudamente i redditi, soprattutto delle famiglie. Occorre allora domandarsi chi dovrà ancora una volta sopportare il peso della crisi e su chi andranno a gravare gli eventuali nuovi e maggiori oneri. Certamente non potrà essere ancora una volta penalizzata quella fascia di cittadini il cui reddito disponibile ha subìto nel corso di questi anni la forte erosione del potere d’acquisto a causa dell’inflazione e sui quali si fanno pesantemente sentire l’introduzione dell’imposta municipale propria (IMU) e del tributo comunale sui rifiuti e sui servizi (TARES).

È necessario, inoltre, che qualsiasi nuovo provvedimento volto a contenere la spesa pubblica e alla riduzione del disavanzo debba ispirarsi al dettato e allo spirito del primo comma dell’articolo 53 della Costituzione che stabilisce «Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva».

Proprio tenendo conto delle fragili condizioni economiche del Paese e in ossequio al dettato costituzionale, il presente disegno di legge propone, nel panel delle misure da mettere in campo, una iniziativa che punta a contenere la spesa previdenziale agendo anche sulle cosiddette «pensioni d’oro». È di queste ore la pubblicazione da parte dell’ISTAT del rapporto elaborato in collaborazione con l’INPS da cui emerge che nel 2011 più di un pensionato su otto ha percepito meno di 500 euro al mese e che quasi la metà dei pensionati, circa 7,4 milioni, il 44,1 per cento del totale, ha ricevuto redditi da pensione per un importo inferiore a 1.000 euro.

Va ricordato che dal 1992 in poi gli interventi macro e micro sulle riforme del sistema previdenziale che hanno tentato di limitare la crescita della spesa pensionistica sono stati molti, ma essi hanno inciso prevalentemente sul requisito anagrafico e contributivo, non ultimo la «Riforma Fornero», senza mai intervenire sui redditi delle pensioni alte, anzi penalizzando nella realtà quelli più bassi.

L’intangibilità delle «pensioni d’oro» non viene compresa da gran parte della popolazione costretta a vivere in condizioni di grande difficoltà, così come quella delle retribuzioni dei «grand commis» di Stato, degli alti magistrati, e dei managers delle aziende con capitale azionario partecipato dallo Stato.

A tal proposito è ormai superata la teoria dei «diritti quesiti», fondata sul principio della «irretroattività».

A ben vedere infatti, la irretroattività costituisce un principio giuridico, non un limite legislativo, perciò non è possibile vietare al legislatore di emanare norme che retroagiscano nel passato, soprattutto in vista di nuove esigenze sociali.

Per valutare meglio questo decisivo aspetto è utile rivolgere l’attenzione alla materia previdenziale. La Corte costituzionale ha più volte posto alle aspettative legittime il limite di interessi superiori: nel caso delle «pensioni d’oro» esso sarebbe il principio fondativo della Repubblica, ex articolo 3 della Costituzione, di uguaglianza. La Corte costituzionale con sentenza n. 390 del 26 luglio 1995 ha stabilito che il cosiddetto «diritto quesito» previdenziale va valutato con riferimento alla normativa vigente al momento del perfezionamento del diritto alla pensione, non sussistendo un diritto quesito relativo al trattamento di pensione in base alla normativa vigente al momento in cui il dipendente è stato assunto. Il Consiglio di Stato (sezione V, sentenza n. 140 del 28 febbraio 1987) a sua volta, ancora prima aveva statuito «…in materia di quiescenza non può parlarsi di diritto quesito se non quando la pensione non sia stata liquidata, mentre anteriormente al verificarsi del fatto acquisitivo del diritto a pensione il dipendente può vantare solo una aspettativa ad un determinato trattamento di quiescenza». E ancora la Corte costituzionale, con sentenza n. 446 del 12 novembre 2002, ha ribadito un principio già espresso in una sentenza pregressa, con la statuizione secondo cui il Parlamento può, al fine di salvaguardare equilibri di bilancio e contenere la spesa previdenziale, ridurre indennità previdenziali già in essere, introducendo con legge una «disciplina non irragionevolmente più restrittiva».

Tra l’altro, l’equilibrio iniziale delle prestazioni viene turbato oltre ogni limite (economicamente) tollerabile da «sopravvenienze», ossia da fatti nuovi e non (o solo parzialmente) preventivabili. Per tale fattispecie si può e si deve invocare la regola presente nel nostro codice civile della «eccessiva onerosità sopravvenuta», che permette di rideterminare le prestazioni previdenziali che, nel corso del tempo e per fatti non preventivabili, si sono rese, appunto, «eccessivamente onerose»: è il caso delle «pensioni d’oro». In conclusione, se la regola «pacta sunt servanda» indica che gli accordi vanno rispettati, questo è vero «rebus sic stantibus», ossia sino al momento in cui la condizione di fatto sottostante all’accordo sia ancora la stessa; al mutare di quest’ultima è legittimo ogni intervento, anche retroattivo, pure sui cosiddetti «diritti quesiti». Con diversi pronunciamenti la Consulta si è affidata alla «prudente valutazione del legislatore», tenuto ad assicurare «in via di principio» la certezza dei rapporti giuridici, ritenuta uno dei cardini della tranquillità sociale e del vivere civile, che dovrà necessariamente tenere in conto anche il nuovo articolo 81 della Costituzione, il quale afferma che «lo Stato assicura l’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio, tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico. Il ricorso all’indebitamento è consentito solo al fine di considerare gli effetti del ciclo economico e, previa autorizzazione delle Camere adottata a maggioranza assoluta dei rispettivi componenti, al verificarsi di eventi eccezionali» tra le quali sono incluse «gravi recessioni economiche, crisi finanziarie, gravi calamità naturali».

Per tutte queste ragioni e tenendo ben presente l’inderogabile principio di equità tra tutti i cittadini, il disegno di legge interviene con disposizioni che possono contribuire a limitare significativamente la spesa pensionistica. Al comma 1 dell’articolo 1, il disegno di legge stabilisce l’eliminazione del cumulo con redditi da lavoro dipendente, autonomo e libero professionale per le pensioni il cui importo supera i 75.000 euro l’anno e, al comma 2, la non applicazione della rivalutazione automatica annuale delle pensioni di importo superiore a 75.000 euro l’anno; all’articolo 2 per le pensioni superiori a 100.000 euro l’anno, prevede il congelamento temporaneo della parte eccedente fino al compimento del settantesimo anno di età.

Inoltre, esigenze inderogabili di equità sociale impongono il divieto del cumulo tra più trattamenti previdenziali e tra questi e i vitalizi, come previsto dall’articolo 3 del disegno di legge. I beneficiari in essere dovranno indicare entro due mesi dalla data di entrata in vigore della legge, quale rendita pensionistica o vitalizio scelgono. Le regioni a Statuto speciale dovranno provvedere ad uniformarsi.

Quanto alle «retribuzioni d’oro» dei «grand commis» di Stato, della Banca d’Italia e degli alti magistrati si deve osservare che esse sono fuori dall’area della contrattazione collettiva e sono stabilite per legge. E poiché in materia retributiva, soprattutto in presenza di retribuzioni che comunque soddisfano ampiamente il precetto ex articolo 36 della Costituzione, nulla vieta che la legge preveda una riduzione di esse. Nel capo II di questo disegno di legge si stabilisce un tetto a tali compensi. Per tutte queste figure il disegno di legge, nel capo III, abolisce fringe benefits e privilegi come le auto di servizio.

Per quanto concerne i managers delle aziende partecipate il disegno di legge prevede il divieto di stock option azionari ed estende anche a tali soggetti il divieto di concessione di fringe benefits, di auto di servizio e di contratti individuali eccedenti l’importo massimo, come previsto per le altre figure del capo II del presente disegno di legge.

DISEGNO DI LEGGE

Capo I

Art. 1.

1. A decorrere dalla data di entrata in vigore della presente legge, le pensioni di importo superiore a 75.000 euro netti l’anno non sono comulabili con altri redditi da lavoro dipendente, autonomo e libero professionale.

2. Alle pensioni di importo superiori a 75.000 euro netti l’anno non è riconosciuta la rivalutazione automatica annuale.

Art. 2.

1. A decorrere dalla data di entrata in vigore della presente legge, per le pensioni di importo superiore a 100.000 euro netti l’anno, la quota eccedente il suddetto importo non è corrisposta all’avente diritto fino al compimento del settantesimo anno di età.

Art. 3.

1. A decorrere dalla data di entrata in vigore della presente legge, non sono cumulabili diversi trattamenti pensionistici e di quiescenza, ivi incluse le rendite vitalizie. I beneficiari dei trattamenti cumulativi di cui al primo periodo indicano, entro due mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, quale rendita pensionistica o vitalizia intendano scegliere.

2. Le regioni a statuto speciale e le province autonome di Trento e di Bolzano provvedono alle finalità di cui al comma 1, secondo quanto previsto dai rispettivi statuti e dalle relative norme di attuazione.

Capo II

Art. 4.

1. A decorrere dalla data di entrata in vigore della presente legge, le retribuzioni erogate da amministrazioni pubbliche, comprese quelle dei dipendenti della Banca d’Italia e dei magistrati, non possono superare l’importo di 200.000 euro lordi l’anno. Sull’importo di cui al primo periodo è calcolato il contributo previdenziale e la liquidazione di fine rapporto.

Art. 5.

1. Il limite massimo dell’importo delle retribuzioni previsto dall’articolo 4 si applica anche ai dirigenti delle aziende con capitale azionario partecipato dallo Stato. I soggetti di cui al primo periodo non possono percepire ulteriori redditi derivanti dall’esercizio di piani di stock option.

Capo III

Art. 6.

1. A decorrere dalla data di entrata in vigore della presente legge, per i soggetti di cui al capo II è vietata la concessione di tutti i benefici accessori, ivi compreso l’uso dell’auto di servizio.

 

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