Debito: Europa e Usa con le “pezze”, Asia e Sud America con i soldi

Il debito pubblico in Italia è al 116% sul Pil

In Asia e in Sud America i parametri di Maastricht resistono e sono rispettati dai governi, mentre l’Occidente sembra aver perso ogni virtù finanziaria. I dati lo dimostrano.

Un grafico elaborato dalla banca J. P. Morgan, e ripreso dal Wall Street Journal, illustra il rapporto deficit/Pil previsto nel corso di tutto il 2010. Nell’Asia emergente (escluso il Giappone) e in America latina la media è 2,8%. Proprio quella parte del mondo che per decenni fu sinonimo di instabilità e alti rischi per gli investitori, oggi si colloca al di sotto del limite stabilito nel Patto di stabilità dell’Unione europea, cioè il 3% di deficit/Pil. Gli Stati Uniti sono al 9,5%, la Spagna a quota 11,4%, la Grecia raggiunge il 12,7%.

Il New York Times pubblica un grafico la cui fonte è il Fondo monetario internazionale, dedicato al rapporto debito/Pil. È l’altro indicatore importante per la solidità delle finanze pubbliche di un paese. Il debito pubblico italiano misurato dall’Fmi (116%) risulta sei volte maggiore di quello cinese (20%), in proporzione al Pil. Filippine, Vietnam, e Indonesia risultano nazioni dai bilanci statali ben più floridi della Germania.

L’India ha il debito pubblico più elevato in quell’area (sempre escludendo il Giappone), ma in realtà arriva alla pari con gli Stati Uniti: ambedue a quota 85%. E la situazione indiana per certi versi è più stabile, perché il 90% del debito pubblico di New Delhi è finanziato dal risparmio interno, elevatissimo. La Malesia, che nel 1997 insieme alla Thailandia fu all’origine dell’ultima grande crisi finanziaria iniziata in un paese emergente, oggi ha un debito pubblico che in proporzione al Pil è un terzo dell’Italia e metà della Germania.

Le preoccupazioni per l’economia europea sono grandi. Quand’anche si riuscisse a scongiurare il rischio di bancarotta sovrana in Grecia o in Spagna o in Portogallo, i mercati finanziari vedono dietro i guai di quei paesi un problema più esteso: il risanamento dei deficit richiederà sacrifici così severi e prolungati, da potere azzoppare la ripresa economica appena iniziata.

Intanto Wall Street osserva con qualche apprensione quel che accade sull’altra sponda del Pacifico. La Cina ha rimborsato tutto quel (poco) debito pubblico che aveva verso gli investitori stranieri. Il bilancio statale della Repubblica Popolare nei primi 11 mesi del 2009 era addirittura in attivo. Le riserve valutarie ufficiali accumulate nei forzieri della banca centrale di Pechino superano i 2.300 miliardi di dollari. Preoccupati per quella che a loro appare la dissipatezza dell’Amministrazione Obama, non vedendo all’orizzonte una exit strategy credibile che riduca il deficit pubblico degli Stati Uniti, i dirigenti cinesi hanno cominciato a diversificare i loro investimenti in dollari. Anziché puntare tutto sui titoli del debito federale (i Treasury Bond), perché non cominciare la scalata all’economia reale, ai bastioni del capitalismo Usa? La China Investment Corporation, il fondo sovrano di Pechino, ha annunciato all’organo di vigilanza sulla Borsa americana di avere investito i primi 10 miliardi di dollari in una serie di grandi aziende americane: in cima alla lista Apple, Coca Cola, Johnson & Johnson, Visa.

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