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Derivati, rischio per lo Stato italiano: 42 miliardi. Di chi la colpa? Nessuno

di Warsamé Dini Casali |27 Aprile 2015 12:56

Derivati, rischio per lo Stato italiano: 42 miliardi. Di chi la colpa? Nessuno

ROMA – Derivati, rischio per lo Stato italiano: 42 miliardi. Di chi la colpa? Nessuno. Negli ultimi 4 anni, cioè dal 2011 al 2014, ha scritto Morya Longo sul Sole 24 Ore di sabato 25 aprile 2015,

lo Stato italiano ha subìto un aumento del debito pubblico di 16,95 miliardi di euro solo a causa dei contratti derivati che avrebbero dovuto “coprire” il debito stesso dai rischi. Non si tratta di costi teorici: si tratta di soldi veri, in gran parte effettivamente usciti dalle casse dello Stato, che hanno aumentato il fabbisogno e dunque il debito.

Tuttavia, secondo Claudio Gatti che aveva aperto il dossier il giorno prima, 24 arile 2015 sempre sul Sole 24 Ore, il conto è ancora più salato. Ci sono oggi in tutto

oltre 42 miliardi ancora da saldare. La data entro la quale, se non cambierà il trend dei tassi, ci verrà presentato quel conto non è certamente immediata, ma prima o poi lo si dovrà saldare.

Sollevato da Claudio Gatti, il coperchio del pentolone infernale dei derivati lascia uscire fumi avvelenati: sono due anni di Fiscal compact, sono 4 manovre da diecimila, vedete voi. Quel che fa disperare è che non sia colpa di nessuno. Lo stesso Claudio Gatti lo ha spiegato in una noticina sullo stesso numero del 24 aprile del Sole 24 Ore:

Indipendentemente dai fattori che lo hanno determinato, il trasferimento di 3,1 miliardi dalle casse dello Stato a quelle di Morgan Stanley appalesa un grande problema: i contribuenti hanno pagato una cifra degna di una mini-manovra finanziaria per via di operazioni finanziarie fatte dai gestori del debito senza essere mai state rese note, né tantomeno spiegate al pubblico o convalidate da supervisori e controllori esterni.

Il Ministero dell’economia e delle finanze ci ha spiegato che i gestori del debito pubblico rispondono “al direttore generale o al ministro”. Da quando si è firmato l’accordo-quadro con Morgan Stanley a oggi in quei posti si sono succeduti nomi eccellenti – Mario Draghi, Domenico Siniscalco, Vittorio Grilli, Giuliano Amato, Carlo Azeglio Ciampi, Giulio Tremonti, Tommaso Padoa Schioppa – ma non risulta che nessuno di loro si sia mai fatto carico delle scelte tecniche fatte nella gestione del debito. Risultato: quei 42 miliardi di potenziali perdite non hanno un singolo responsabile politico.

I derivati, che avrebbero dovuto proteggerci, constata con amarezza Morya Longo,

in realtà ci hanno pugnalato alle spalle. Il motivo è in parte legato alla drammatica crisi dello spread, che tra il 2011 e il 2012 ha costretto l’Italia a usare anche i derivati come “ancora” di salvezza. Sta di fatto che l’Italia, secondo anche i calcoli di Bloomberg, in questi 4 anni da sola ha “pagato” per i derivati più di tutti gli altri Stati dell’Unione europea messi insieme.

Andiamo con ordine. Com’è noto il nostro Paese non solo ha un gigantesco debito pubblico (ben oltre i 2 mila miliardi di euro), ma ha anche una gran quantità di derivati: contratti che dovrebbero servire per coprire lo Stato da rischi vari, come quelli dell’oscillazione delle valute o dei tassi d’interesse. Ammontano a 159 miliardi di euro di valore nominale e, secondo i dati ufficiali del Tesoro, a fine 2014 avevano un valore di mercato negativo per lo Stato pari a 42,6 miliardi. Ma se questi 42 miliardi rappresentano perdite teoriche, che si concretizzerebbero qualora venissero chiusi, gli stessi derivati negli ultimi anni hanno prodotto anche perdite reali per 16,95 miliardi.

I numeri arrivano da Eurostat e dall’Istat. Nel solo 2014 i flussi di interessi causati dalle operazioni in derivati (swap e forward rate agreement) hanno “portato via” allo Stato ben 3,6 miliardi di euro. Si tratta di soldi effettivamente “spesi”, cioè usciti dalle casse pubbliche per via dei flussi di denaro che lo Stato ha scambiato con le banche d’affari con cui ha stipulato i derivati.
Il saldo negativo diventa però di 5,5 miliardi nel 2014 se a questi 3,2 si sommano anche i costi (pari a 1,8 miliardi) che lo Stato ha sopportato per operazioni straordinarie: per esempio per la ristrutturazione di alcuni contratti (soprattutto quelli di duration). Questi 1,8 miliardi non sono stati effettivamente spesi dallo Stato, ma hanno comunque aumentato il debito pubblico: dunque hanno contribuito a formare quella gigantesca montagna da oltre 2mila miliardi.

Fra gli altri Paesi, nessuno ha speso tanto con i derivati. Nei tre anni che vanno dal 2011 al 2013, nei quali in Italia i derivati hanno pesato per 11,5 miliardi effettivi in Germania i derivati hanno prodotto un “guadagno” (dunque minor debito) per 556 milioni e in Francia per 3,2 miliardi.
Anche in Spagna, che ha subìto la stessa crisi del debito tra il 2011 e il 2012, i derivati non hanno proporzionalmente fatto così male come a noi: Madrid non ha “guadagnato” come Parigi e Berlino, ma ha registrato un costo sui derivati di appena 379 milioni. Insomma: in Italia i derivati hanno avuto un effetto concreto sui conti pubblici rilevante, mentre all’estero no. È vero che la situazione italiana è particolare, data la mole del debito (in Spagna è più piccolo) e la virulenza della crisi nel 2011.

Eppure i numeri scavano veramente un solco profondo tra Italia e resto d’Europa: se si prova a dire che ai tecnici del ministero dell’Economia che questi dati rivelano una «patologia», loro rispondono che rivelano una «peculiarità». Ma proprio questo è il punto: perché l’Italia ha rinegoziato così tanti derivati, che hanno causato così grandi perdite? Perché l’ha fatto solo l’Italia e non la Spagna o la Francia? Il motivo è probabilmente in parte legato alla struttura del nostro debito. Ma in parte anche alla grave crisi che nel 2011 ha colpito il Paese: una crisi senza precedenti che rischiava di portare l’Italia in default.

E che il Tesoro, per limitare i danni, ha gestito anche facendo una sorta di “baratto” con le banche internazionali: da un lato loro hanno continuato a sottoscrivere titoli di Stato in asta, evitando al Paese il peggio, dall’altro il Tesoro ha rinegoziato con le stesse banche un po’ di contratti derivati esponendosi a rischi e possibili perdite future. Quei 16,9 miliardi, ma soprattutto la parte causata dalle rinegoziazioni, sono forse la dimostrazione che l’Italia si è salvata non gratuitamente. (Morya Longo, Il Sole 24 Ore).

In due articoli pubblicati il 24 aprile, Claudio Gatti ha affrontato il nodo tecnico dei derivati. Ci si chiede se non si siano corsi rischi irragionevoli, se siano state sbagliate le previsioni, se la sottoscrizione di strumenti di copertura dai rischi siano stati in qualche modo estorta da Wall Street, altrimenti resta difficilmente spiegabile l’esborso di 3,1 miliardi con il quale, nel gennaio del 2012, il Tesoro ha saldato i suoi derivati con Morgan Stanley. Mistero che nemmeno il responsabile del Tesoro, il direttore del Debito Pubblico Maria Cannata è riuscita veramente a sciogliere.

Dall’inchiesta de Il Sole 24 Ore emerge che però il Tesoro si è lanciato anche in scommesse finanziarie che non offrivano copertura né sembrano essere state giudiziose. Ci riferiamo in particolare alla vendita di tre swaption – ovvero opzioni a entrare in swap – che nel gennaio 2012 sono state saldate a Morgan Stanley al costo di circa 2,5 miliardi. Grazie anche al maggiore impegno di trasparenza da parte dell’attuale Mef, abbiamo appurato che come quelle ce ne sono molte altre ancora aperte. Che a oggi risultano avere un valore negativo di 8,8 miliardi. Così come ci sono altri swap fatti al fine di allungare la durata del debito (come gli altri derivati con Morgan Stanley costati i restanti 900 milioni) che hanno oggi un mark-to-market negativo così alto – 33 miliardi – da far pensare che alcuni abbiano profili di rischio del tutto anomali.

Secondo il Tesoro il calo dei tassi anormalmente basso è attribuibile alla crisi finanziaria e non era prevedibile. Tuttavia, non è in discussione lo strumento (e anche se previsioni diverse non erano impraticabili), ma il costo dell’operazione. Gatti spiega il meccanismo contabile che può aver funzionato da incentivo.

Fino all’ottobre scorso per i derivati le regole prevedevano che venissero portati a bilancio gli introiti – i cosiddetti upfront – ma non le passività o i mark-to-market acquisiti, che a bilancio sarebbero andati solo al momento dell’esborso.  Il Mef ce lo ha confermato: «Il bilancio è fatto per cassa, quindi non avrebbe alcun senso esporre il mark-to-market, cioè un esborso squisitamente teorico che non si verifica nell’anno di cui il bilancio offre un resoconto. Ovviamente vengono invece indicati nel bilancio i flussi finanziari effettivi generati dall’esercizio dei contratti nel corso dell’anno».

Anche i banchieri avevano il loro ritorno: perché a differenza di quello che fa lo Stato, le banche portano a bilancio i crediti acquisiti con il mark-to-market. Che poi influiscono sui bonus di fine anno. Insomma era una situazione che in inglese si definirebbe win-win, in cui entrambi avevano un ritorno – immediato per lo Stato, spalmato nel tempo per le controparti private. Nel caso delle tre swaption vendute a Morgan Stanley, i dati portano a concludere che il Tesoro abbia in effetti pensato a ottenere benefici immediati rinviando l’eventuale saldo a un lontanissimo futuro.

Il Sole 24 Ore è infatti riuscito a ottenere in esclusiva informazioni mai prima rese pubbliche appurando che le date di scadenza finale dei derivati accessi con le tre swaption erano il 1 settembre 2035, il 1 agosto 2048 e addirittura il 4 agosto 2058, quindi fino a ben oltre mezzo secolo dopo la firma del contratto originale. Come se Matteo Renzi si dovesse trovare oggi a dover saldare il conto di mutui stipulati nel 1956 dal governo di Antonio Segni!

[…] Quando abbiamo domandato quali potenziali benefici abbiano spinto il Mef a vendere quelle swaption a Morgan Stanley, ci è stato risposto che «le swaption sono state utilizzate per compensare forti oscillazioni nei tassi e gli introiti dovuti alla cessione di diritti hanno consentito di ridurre gli oneri complessivi del servizio del debito in periodi di tassi elevati».

Ma a detta degli esperti da noi consultati, la prima giustificazione non regge: per compensare le oscillazioni dei tassi avrebbe avuto molto più senso aprire direttamente uno swap. Quindi l’unico possibile beneficio era il premio. E allora sorge la classica domanda: il gioco valeva la candela?  A parte la contraddizione con la mission dichiarata di copertura e stabilizzazione, il fatto che più desta perplessità è che, secondo i calcoli di un esperto consultato dal nostro giornale, si siano assunti rischi costati 2,5 miliardi per incassare 200 milioni in premi. (Claudio Gatti, Il Sole 24 Ore).

 

 

 

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