Donne d’impresa: Dalida Sorini, classe 1990: avvocato 2.0 fin da bambina

Donne d’impresa: Dalida Sorini: avvocato 2.0 fin da bambina

Classe 1990, ma già avvocato con la “A” maiuscola ad Arezzo. Dalila Sorini, che potrebbe fare l’indossatrice, con quel portamento elegante, i suoi occhi blu ed i lunghi capelli neri sciolti sulle spalle, fin da bambina giocava invece a fare l’avvocato delle “cause perse”.

La sua tesi di laurea su “La tutela del minore nel mondo digitale” la dice lunga in questi tempi di web marketing e digitalizzazione a gogò, su quelli che sono i suoi reali valori ed interessi più profondi. Naturalmente, oltre a studiare per diventare un avvocato, Dalila giocava volentieri anche a tennis ed era fra le più brave nel corso di danza classica e moderna che ha frequentato per anni, con soddisfazione. Ora però, nonostante si stia dedicando alla sua già promettente carriera, Dalila sembra proprio andare controcorrente perché al di là di ogni previsione, dal momento che – si sa – non nascono più figli in Italia, lei invece sogna di avere dei bambini con il suo fidanzato Fabio, che sposerà a giorni.

Con lui continua a giocare a tennis, sfidandolo con il più bello dei sorrisi e qualche volta … lo lascia anche vincere. In realtà, anche se ama viaggiare nei luoghi più sconosciuti, Dalila è molto dedicata e innamorata del suo lavoro, dove svolge attività di consulenza legale e stragiudiziale, in ambito sia civile che penale e in cui si è già distinta per bravura e competenza. Specializzata in Diritto Civile, è particolarmente sensibile ai problemi sociali che affliggono il nostro Paese.

Figlia di imprenditrice orafa, la sua vera impresa, invece, sembra essere quella di poter vivere, finalmente, in un mondo con un sistema giudiziario più attento e senza troppi orpelli. Si occupa di contenziosi civili, in generale, contratti ed obbligazioni, recupero crediti, risarcimento danni e Diritto Penale, in relazione ai reati di natura dolosa e colposa  

In Italia siamo ricchi di avvocati, in ogni regione e specializzazione. Come pensa di fare la differenza?  Qual è la sua sfida per un futuro più equo?

E’ vero, solo in Italia siamo 240.019 avvocati. Un numero particolarmente cospicuo ma che cala di anno in anno, infatti l’avvocatura italiana sta vivendo un momento particolarmente difficile e sono sempre più i colleghi che decidono di cancellarsi dall’Albo. A mio avviso si può fare la differenza soltanto offrendo al cliente la propria preparazione: l’avvocato deve necessariamente aggiornarsi, non solo negli studi ma anche nei modi di interagire con la società, deve infatti prestare particolare cura ed attenzione al mondo che lo circonda ed alle forme in cui esso muta e si evolve, per poter fornire una risposta alle esigenze dei nostri assistiti. Basti pensare al periodo della pandemia dove ci siamo dovuti cimentare con le udienze online da remoto utilizzando piattaforme di video conferenza. L’arte della retorica, di cui è utilizzatore l’avvocato, si nutre della capacità di espressione preverbale che, con lo schermo del computer, in gran parte si perde. 

Ma, soprattutto, due sono i requisiti fondamentali di cui, a mio avviso, deve essere dotato un avvocato: caparbietà e rispetto. 

Caparbietà perché la strada per ottenere l’abilitazione alla professione non è affatto semplice. Alla fine di un lungo percorso di studi universitari ci sono diciotto mesi obbligatori di pratica forense per poi poter presentare domanda ed affrontare uno degli esami di stato più complessi del nostro Paese e, una volta ottenuta l’abilitazione, occorre non perdere né la tenacia né la perseveranza per affrontare anche la quotidianità del lavoro fatta di scadenze e necessaria organizzazione. 

Il rispetto, invece, prima di tutto dobbiamo averlo verso noi stessi ed i nostri ideali. L’avvocato, donna o uomo di diritto, deve perseguire un ideale specifico: essere strumento per equa applicazione della legge, del codice che è lo strumento che ci ha fornito il legislatore. Mi piace ricordare una frase di Calamandrei che definiva un grande avvocato colui che è “utile ai giudici per aiutarli a decidere con giustizia. Utile al cliente per far valere le proprie ragioni. Utile è quell’avvocato che parla lo stretto necessario, che scrive chiaro e conciso, che non ingombra l’udienza con la sua invadente personalità”.

E dunque, un avvocato utile è un avvocato che rispetta il lavoro degli altri (giudici ed assistiti) ed è allo stesso tempo un professionista che quel rispetto se lo è anche guadagnato e per tale ragione, nel mare immenso in cui ci troviamo a nuotare, fra quei 240.019 fa la differenza. Se tutti mettessimo in pratica questo principio potremo parlare di futuro più equo.

Un suo commento sulla “parità di genere” che, a proposito del suo lavoro, sembra raggiunta da tante donne, sia nel penale che nel civile.

A questo proposito ricordo con piacere di aver potuto partecipare ad un evento di Aidda dove ho ascoltato l’intervento della Presidente della Corte di Cassazione Dott.ssa Margherita Cassano, prima Presidente donna della Suprema Corte, una professionista il cui curriculum fa impallidire molti. Ultimamente, e sempre più spesso, leggiamo nei quotidiani o ascoltiamo alla televisione questa frase “la prima donna a…”, ci avete fatto caso?

Se nella magistratura si registra un 55% degli incarichi affidati alle donne, anche nella avvocatura la percentuale femminile supera, se pur di poco, quella maschile. 

Non è difficile sentire che le donne avvocato sono spesso più preparate perché più studiose, più organizzate perché più esigenti, più empatiche di natura, ma, essendo donne, sembra sempre che questi requisiti li debbano dimostrare più di altri. Però a me le distinzioni non piacciano né per un senso né per un altro: per esempio non credo che sia una vocale, in fondo ad una parola a conferire parità di genere. Il dibattito se sia più corretto rivolgersi ad una collega chiamandola avvocato o avvocata lo ritengo, a mio avviso, piuttosto sterile se poi, nella quotidianità, non c’è la stessa parità o lo stesso rispetto fra colleghi (indistintamente uomini o donne). Io preferisco essere trattata come una “professionista” e che il frutto del mio lavoro sia riconosciuto a prescindere dal fatto che sia stato fatto da una donna o da un uomo. Ci sono infatti tantissime donne meritevoli, ma anche tanti uomini meritevoli e viceversa donne ed uomini che non lo sono. Per me potremo ritenere raggiunta la parità di genere quando smetteremo di parlarne o di esordire con la frase “la prima donna a…”, perché vorrà dire che avremo raggiunto un sano e proficuo equilibrio dove sarà solo il merito l’unico requisito distintivo. 

La strada per scardinare il retaggio lasciato del patriarcato è ancora lunga, ma l’aria innovativa che stiamo respirando è frutto del cambiamento sociale a cui  noi stesse stiamo prendendo parte: il legislatore con l’adozione di leggi ad hoc a tutela delle donne, la stessa Aidda con la sua attività di sensibilizzazione attraverso la creazione di una rete comunicativa, tutte le donne che prima di noi hanno aperto la strada quando il contesto storico-sociale era davvero chiuso ed ostile nei loro confronti, e quegli stessi uomini che credono fortemente nelle donne, perché ci sono e devono essere menzionati per non commettere noi l’errore di fare discriminazioni. Ognuno di noi sta aggiungendo un tassello verso il raggiungimento della parità di genere. Per questo penso che stiamo facendo un buon lavoro ma che possiamo e dobbiamo fare di più soprattutto sensibilizzando le nuove generazioni al rispetto reciproco. 

Ha fatto molto scalpore il libro scritto da Luca Palamara: “Il Sistema. Potere, politica affari: storia segreta della magistratura italiana”. Lei cosa ne pensa?

Il Caso “Palamara” ha suscitato tantissima polemica e scalpore perché ciò che ha dato più fastidio è stato “scoprire” che le leggi non sono state rispettate proprio da chi aveva il potere per farle rispettare. 

Si parla dei “segreti” della magistratura ma, in realtà, la storia ci insegna che questo non è stato il primo caso o il primo scandalo che abbiamo dovuto affrontare. Pensiamo alla famosa strage di Via D’Amelio oggetto di uno dei più grandi depistaggi della storia giudiziaria italiana di cui tutti potevano sapere tranne l’allora Procura di Caltanisetta. A seguito della archiviazione Fiammetta Borsellino ha detto “faranno i conti con la propria coscienza”.

E dunque a questo voglio riallacciarmi, alla propria coscienza. Magistrati, avvocati, politici ecc. sono tutti uomini e donne e come tali, per loro natura, commettono gravissimi errori che diventano reati e che debbono essere perseguiti e puniti. 

Tutte le volte che si scoperchia il vaso di Pandora assistiamo ad una potentissima onda d’urto di coscienza collettiva per poi tornare, una volta abbassatosi il polverone, a dimenticare tutto. Dovremo semmai evitare di avere la memoria così corta.

La sua tesi dal titolo così attuale, “La tutela del minore nel mondo digitale” merita una riflessione da parte di tutti. Quali i suoi consigli per far sì che il mondo digitale sia una risorsa e non un rischio per i nostri figli? 

Negli ultimi anni il computer e lo smartphone sono diventati beni di consumo alla portata di tutti nei Paesi più sviluppati ed insieme all’avvento dei social networks abbiamo assistito ad un aumento della condivisione delle informazioni, dei dati personali, immagini, opere etc. 

L’avvento del mondo digitale, se da un lato ha incrementato la connessione fra le persone ed in qualche modo la socialità ha favorito la contrattualistica e la vendita online e conferisce maggiore visibilità e commercializzazione, dall’altro lato nasconde innumerevoli insidie. Sono infatti due le situazioni che spesso si presentano: da un lato i minori che sempre più utilizzano tali strumenti con abilità ma scarsa consapevolezza, dall’altro gli adulti che conoscono poco le loro potenzialità ed i loro pericoli. Il problema principale è che la Rete internet non è soggetta a controllo per sua natura. Gli utenti sono liberi di decidere quali i contenuti seguire o “postare” in rete e quindi, purtroppo, possono incappare in qualsiasi tipo di contenuto. Vero che i social hanno sviluppato sistemi di sicurezza, ognuno è infatti dotato di un Centro Assistenza, ma sono a reazione postuma nel senso che prima il contenuto viene liberamente pubblicato e solamente se segnalato viene successivamente rimosso, perché non è possibile effettuare un controllo ex ante. Ma in quei pochi secondi in cui l’immagine o il filmato è rimasto in rete le visualizzazioni che può aver ottenuto possono essere centinaia. Purtroppo sempre più spesso sentiamo parlare di violenza, odio e discriminazione in rete o di adescamento di minori, di violazione della loro riservatezza, manipolazione delle informazioni, esposizione a contenuti non richiesti. Molti adolescenti rivelano informazioni personali a sconosciuti casualmente e inconsapevolmente credendo di parlare con dei coetanei, perché abituati a rivelare le loro cose a degli estranei (ma loro pari) piuttosto che ai genitori. Si crea un paradosso: la voglia di socialità e la ricerca di popolarità crea relazioni online che si credono più intime di quelle esistenti nella realtà. 

La cosa fondamentale è infatti educare i minori all’uso responsabile ed al concetto di riserbo che purtroppo sta scomparendo. A casa è possibile utilizzare sistemi di c.d. “filtraggio”: impostare la propria televisione con password per evitare l’accesso a canali destinati ad un pubblico adulto. 

E’ indubbio che l’educazione debba iniziare prima di tutto all’interno del nucleo familiare e poi continuare a scuola. I due gruppi sociali devono interagire ed adottare una linea comune. A mio modesto avviso, sarebbe utilissimo inserire all’interno del programma scolastico un’ora di media education, per fornire ai minori gli strumenti adatti per crescere con la consapevolezza che sì Internet è un mezzo dalle infinite risorse che, se ben utilizzato, è in grado di mostrare le sue vantaggiose potenzialità ma che è ricco di insidie che possono essere evitate. 

Un sogno ancora da realizzare: la sua mamma ha creato un brand di gioielli e …lei? Nel suo futuro c’è anche l’azienda di famiglia? 

Al momento nel mio futuro non c’è l’azienda di famiglia, sono sicura della scelta intrapresa e per adesso mi vedo ancora nelle aule di Tribunale indossando la mia adorata toga. Però, essendo figlia di imprenditori, le dinamiche societarie mi hanno sempre interessato tanto che punto a specializzarmi in tale ramo del diritto. Sicuramente alla mia famiglia, e a mia mamma, devo tanto, praticamente tutto: il suo duro lavoro mi è sempre stato di esempio, non si è mai risparmiata per potermi consentire di scegliere da sola il mio cammino.

Penso che non ci sia gioia più grande per lei che vedermi felice e realizzata in quello che faccio anche se ciò ha voluto dire allontanarmi, almeno lavorativamente parlando, da lei. 

In ogni caso l’azienda è sempre con me, non dimentico mai di indossare un prodotto in oro realizzato da mia mamma prima di ogni udienza.

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Orietta Malvisi Moretti