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Editoria, tanti soldi dallo Stato, ma per la sfida digitale serve una strategia e una visione globale

Editoria, si può dare di più, esclama Vincenzo Vita in questo articolo pubblicato anche sul Manifesto.

In un’intervista al Sole24Ore il sottosegretario con delega all’editoria Alberto Barachini annuncia la prossima firma in calce al provvedimento che destinerà la quota del 2023 (140 milioni di euro, dopo i 90 dell’anno scorso) del Fondo straordinario per il settore. Si tratta di una buona notizia, contenuta in un’esternazione mediale di una figura fin troppo silente, a differenza di troppi colleghi – spesso sgradevolmente- loquacissimi.

Il Fondo in questione va ripartito con equità, ovviamente. Serve, però, una scelta, che può essere solo un incentivo a trasformare il precariato in lavoro stabile.

Nel fare gli auguri ad Andrea Riffeser per il rinnovo di mandato che ha avuto come presidente della Federazione degli editori, è augurabile che da quella parte non si insista con la richiesta di utilizzare le risorse pubbliche per rattoppare i bilanci delle proprietà, favorendo scivoli e prepensionamenti a quintalate senza le garanzie di ricambi generazionali su cui da tempo insistono le organizzazioni sindacali.

In verità, l’investimento sarà pure ingente, come afferma Barachini, ma la proporzione non va fatta con i tempi agri dei tagli dell’ex ministro Tremonti, bensì con le urgenze della transizione digitale.

Non sembri una provocazione: per evitare di arrivare alla meta dell’on line come linguaggio definitivo con morti e feriti sul campo, servirebbe una cifra di quattro-cinque volte superiore.

Non siamo in una situazione di crisi nella normalità, bensì in cima ad una slavina che corre senza freni.

Le copie di quotidiani venduti in edicola sono un sesto rispetto a quindici anni fa, né le versioni digitali riescono a pareggiare la bilancia. Le edicole si chiudono progressivamente, per l’assenza di una visione lungimirante di chi governa, cui sembra non interessare la sorte della rete più capillare del paese, in un’epoca dove la rete è un tesoro e non un ingombro del passato.

In un recente convegno promosso a Lecco dalla Confcommercio, le voci dei rappresentanti degli esercizi commerciali si è sentita in tutta la sua drammaticità. Se si chiudono le edicole vengono meno le testate territoriali e si inaridisce la cultura di massa. Nella sola provincia di Lecco, si sottolineò, su 330.000 abitanti, ben 15.000 non hanno accesso ad un punto vendita. In grande, si può citare il dato fornito dal Wall Street Journal: dal 2004 al 2018 hanno chiuso i battenti 1800 testate negli Stai Uniti, dove trovare un’edicola è difficile.

Sempre in quella sede la dirigente del Dipartimento dell’editoria Stefania Palamara aveva aperto al dialogo con i vari esponenti del sistema, anticipando i termini dei provvedimenti in corso d’opera.

Ma la buona volontà serve a poco, se non si inserisce in un contesto e in una strategia di medio-lungo termine.

Se è vero che tra il 2030 e il 2032 (come emerge da diverse analisi predittive) la carta stampata sarà ridotta ad ancorarsi a qualche supplemento costoso delle edizioni digitali, sono necessarie misure importanti e indifferibili.

Parliamo di una vera formazione professionale, volta a costruire un’identità giornalistica autorevole e capace di negoziare gli algoritmi senza subirne né il potere assoluto né il fascino tecnologico. Questo è il traguardo -se vogliamo interloquire con l’importante dibattito in corso sull’accesso in seno all’Ordine dei giornalisti- da porci: per tutelare autonomia e indipendenza dei e nei saperi.

Inoltre, va chiusa la stagione dell’occupazione intermittente e delle logiche schiavistiche, con il ricatto dilagante delle querele temerarie.

Gli ultimi testi varati dalla destra (vedi il decreto lavoro) non suscitano molte speranze. Tuttavia, è bene urlare la verità: se scompaiono i giornali, ovvero la lettura argomentata e riflessiva, è la democrazia a subire un colpo ferale.

Il Fondo per il pluralismo e l’innovazione (quello dedicato a cooperative e quotidiani non profit) pare stabilizzato, ma vanno eliminate la vecchia previsione di un suo progressivo décalage e la troppa burocrazia dell’antica normativa.

Insomma, si può dare di più, citando un fortunato motivo musicale. Dall’aspirina si passi alle cure stabili.

 

 

 

 

 

 

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