Cina. “Non comprerà il mondo”, parola di Financial Times

Financial Times: "perché la Cina non comprerà il mondo"
Financial Times: “perché la Cina non comprerà il mondo”

ROMA – Financial Times: “perché la Cina non comprerà il mondo”. La Cina minaccia l’Occidente, il drago orientale si comprerà il mondo: al netto dei livelli di invasione percepita, forse è utile circoscrivere i termini di quella che sta diventando una paranoia globale, un mito apocalittico infondato. Martin Wolf, editorialista del Financial Times, dice che no, il mondo non è destinato ad essere divorato, l’osservazione dei rapporti di forza economici attuali ci dice che la Cina dipende troppo dagli altri per imporre una egemonia unilaterale.

Il consiglio è guardare con più ottimismo al futuro globale, succederà quel che succederà, ma non finiremo sotto la sfera d’influenza cinese  espropriati dei nostri beni. La tesi l’ha formulata un professore di Cambridge, Peter Nolan, in un agile volumetto che provocatoriamente cerca di demistificare il pericolo giallo e stigmatizzare una certa propensione dei media ad enfatizzarne i rischi per scarso interesse a valutare correttamente il ruolo della Cina nella politica economica globale.

La seconda potenza economica mondiale, il più grande esportatore, il miliardo e mezzo di anime, non comprerà il mondo perché non ne ha i mezzi né il know how appropriato, lo dice l’evoluzione del mercato globale che ha prodotto anche la sua irresistibile ascesa negli ultimi trent’anni. Nolan (per Wolf fra i pochi occidentali a conoscere il punto di vista cinese sull’Occidente) ci dice che “siamo dentro la Cina, ma la Cina non è dentro di noi”.

Negli ultimi 30 anni, la globalizzazione ha prodotto, attraverso fusioni, acquisizioni, flussi di capitale diretto straniero, un paesaggio economico abitato da pochi attori dominanti. Per dire, usando dati 2006-2009, nel business delle bibite gassate ci sono solo due giganti. Nelle infrastrutture della telefonia mobile e negli smartphone sono dieci. Automobili e computer una decina. Cosa hanno in comune?

Un centinaio di colossi internazionali rientra nella schiera dei “system integrator companies”, hanno capacità illimitate di destinare risorse per l’innovazione e la ricerca (3/5 delle spese in tecnologia e ricerca delle 1400 top companies), di sviluppare il marchio nel mondo, investire nei paesi più “sexy” del momento nell’hi tech, di attrarre i migliori cervelli. Tutte quante sono in Occidente. Sono il fondamento del capitalismo occidentale e il maggior fornitore di servizi di qualità della sua middle class.

L’indiscutibile successo cinese consiste nell’aver fornito all’Occidente manodopera e un mercato (contribuendo al primato dell’Occidente). Di converso, più di un quarto del valore industriale aggiunto cinese si deve agli investimenti esteri (lo shopping internazionale), che incidono sul 66% della produzione industriale hi-tech, sul 55% delle esportazioni, sul 90% dell’esportazioni hi tech. Nel frattempo l’80% della ricchezza “esportata” (gli investimenti esteri secondo l’indice FDI global stock outward) conserva il domicilio nei paesi con alti salari. Ragionando in trilioni di dollari:  gli Usa investono all’estero 5,2 trilioni, il Regno Unito 1,8 trilioni, la Cina, che è costretta dalla penuria di risorse naturali a farlo, investe appena 509 miliardi.

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