ROMA – Un quarto dell’agricoltura italiana è sommerso. La letteratura sul tema è concorde, dalle stime della Banca d’Italia a quelle dell’Inail, dai sindacati al think tank americano Stratfor (legato alla Cia ed esperto di scenari geopolitici ma che si è occupato recentemente dei preoccupanti effetti della crisi europea e delle sue ripercussioni sulla stabilità politico/sociale). Proprio il rapporto di Stratfor, che calcola in un quinto del Pil nazionale il valore complessivo dell’economia informale, giudica il peso del sommerso una zavorra per l’Italia incamminata sulla strada del risanamento dei conti, una montagna di risorse occultate al fisco e sottratte alla ricchezza comune.
Ma, lo stesso rapporto, non si fa scrupoli, diciamo così, economicamente corretti, nel considerare il sommerso una specie di stabilizzatore sociale, il parafulmine che ha impedito al Paese di scivolare lungo la china regressiva di risentimento/rabbia/paralisi riscontrata, ad esempio, in Spagna e soprattutto in Grecia. Fuori dalla cornice della legalità, dove salari, orari e mercato del lavoro sono inevitabilmente più flessibili, si mantengono più elevati standard di produttività, utili a reggere la concorrenza. Quello che non succede nell’industria, dove il controllo esercitato da agenzie governative, enti locali e sindacati riduce al minimo la possibilità e la tentazione di evadere, di non regolarizzare, di licenziare indiscriminatamente. Gli ultimi dati sulla produzione industriale, però, segnano un arretramento dell’8% rispetto all’anno scorso.
Tornando all’agricoltura, vero bacino privilegiato dell’economia sommersa, storicamente e strutturalmente, cosa la distingue dalla campagna di lotta senza quartiere all’evasione fiscale dei “ricchi” genericamente intesi, dei fornitori di servizi e beni di lusso e non, dei ristoranti che non emettono scontrini, dei possessori di barche ispezionati in alto mare ecc…? Non sarebbe auspicabile, nello “stato di guerra” evocato da Monti, scatenare le truppe di Befera oltre che a Cortina o a Capri, a Portofino o in Costa Smeralda, per qualche qualche agguato nelle campagne di Rosarno o del Tavoliere, nelle risaie piemontesi o negli allevamenti della Bassa padana?
Abbiamo indicato appositamente luoghi distanti e che non riguardino il solito mezzogiorno, dove pure il sommerso si intreccia spesso, ma non solo, con la criminalità organizzata. I risultati dell’attività di ricerca sul campo realizzata tra fine 2010 e inizio 2011 dal Censis stimano la crescita del sommerso in agricoltura con un dato tendenziale che dal 20,9% del 2001 cresce fino al 24,5% del 2009. Al Sud il tasso complessivo di irregolarità raggiunge il 25,3%, e tocca punte estreme in Campania (31,0%) e Calabria (29,4%); al Centro il tasso medio è pari al 23%, con il Lazio che presenta il più alto tasso di irregolarità (32,8%); al Nord il dato medio è assai simile (22,9%), ma il Trentino-Alto Adige registra il tasso più basso, di poco superiore al 14%. Il fenomeno tende inevitabilmente ad aumentare nelle aree destinate a colture intensive di tipo stagionale.
Da un punto di vista qualitativo le considerazioni fornite dal Censis fotografano uno scenario a più dimensioni. Dove comandano i caporali e più forte è la presa delle diverse mafie si va dall’immersione più totale fino “alle forme del più bieco sfruttamento”, che coinvolge ovviamente i soggetti più deboli come gli immigrati clandestini. Situazioni che, però, coesistono “con una diffusa propensione a parziali inadempienze contrattuali e previdenziali, di certo meno gravi e, specialmente in alcuni contesti, perfino comprensibili nelle loro motivazioni”. Un universo tutt’altro che monolitico, quindi, dove alla cronica debolezza di sistema legata agli alti costi del lavoro e ai bassi prezzi alla vendita, si accompagnano l’assenza di controlli mirati, la pesantezza della burocrazia e le lungaggini amministrative. Senza contare la velocità con cui le imprese irregolari sfuggono al periscopio dello Stato, inadeguato a intercettare la presenza dei sottomarini “apri e chiudi” del sommerso agricolo.