Sbagliato il premio agli esattori, il Fisco non deve “produrre” nulla

ROMA – Leggo sul “Corriere della Sera” del 13 maggio, con l’autorevole firma di Dario Di Vico, considerazioni finalmente negative sui premi di produttività riconosciuti ai funzionari del Fisco, definititi dal giornalista “una evidente distorsione di comportamenti e spazio per possibili abusi di potere”. Mi sembrava strano che tale imbarazzante stato di cose non fosse stato finora denunciato alla pubblica opinione, data la grande rilevanza, specialmente in questi giorni, del tema del rapporto fisco-contribuenti giunto ad una svolta drammatica.

A quanto pare non tutti sanno che bisogna tenere ben distinta l’attività di accertamento, svolta dall’Agenzia delle entrate, che produce un gettito solo potenziale, da quella della riscossione, svolta da Equitalia, che dovrebbe tradurre in gettito effettivo quanto è stato accertato. Dico “dovrebbe” perché quando arriva la cartella di Equitalia il contribuente sovente è già fallito, o è all’estero, oppure ha provveduto a far sparire il suo patrimonio, ovvero, semplicemente, quel patrimonio che nell’anno “accertato” esisteva, adesso, dopo qualche tempo, è stato eroso dalla crisi, dalla concorrenza o, banalmente, dalla incapacità imprenditoriale. Molto frequentemente, contro gli accertamenti viene presentato ricorso alle Commissioni tributarie, che almeno nel 60 per cento dei casi danno ragione al contribuente, annullando o riducendo l’ammontare degli accertamenti presunti.

C’è un’altra possibilità, avvilente: che nel frattempo lo Stato non abbia pagato i crediti d’imposta all’imprenditore e che questo sia fallito per mancanza di liquidità.

Ma perché, allora, premiare un’attività che non necessariamente produce i suoi frutti? E perché l’Agenzia delle entrate viene gestita in maniera aziendalistica, come se fosse un’impresa che deve tendere necessariamente al massimo profitto?

Non si può non rilevare che la massimizzazione del gettito ad ogni costo, lungi dal rappresentare l’attuazione di un fisco giusto ed equo può produrre effetti gravemente distorsivi del sistema e forti sperequazioni. Una imposizione troppo gravosa, derivante da una interpretazione faziosa delle norme, ovvero dal perseguimento reiterato di determinate categorie di contribuenti, o semplicemente perché le aliquote troppo alte e le sanzioni esagerate rendono una rettifica della dichiarazione una vera e propria catastrofe finanziaria, è alla base, con tutte queste concause, della chiusura di moltissime attivita’, della fuga di capitali e, last but not least, del lavoro nero. Chi non tiene duro si fa sopraffare dalla disperazione e soccombe, nel senso non metaforico del termine.

Ma possono i dipendenti dell’Agenzia delle entrate sottrarsi a tale incombenza? Purtroppo siamo oramai arrivati alla tanto da me temuta e preconizzata, già molti anni fa, gravissima situazione di uno Stato sempre più necessitato a far cassa e di una Amministrazione demotivata, spesso con funzionari dirigenti di fatto e non di diritto, a cui anziché la giusta remunerazione, e giuste aspettative di carriera, si concede l’avvilente “premio di produzione”, costretti a garantire il raggiungimento degli obbiettivi pena trasferimenti e licenziamenti. Non si sa quanto questi obbiettivi, che, decisi in alto loco, vincolano ogni anno l’attività degli uffici, tengano conto del disastro sociale ed economico “prodotto”.

Non c’è davvero da meravigliarsi della sequela dei suicidi, con un Fisco che preleva il 50 per cento del reddito, con gli Enti previdenziali che richiedono un altro 22 per cento, e in più gli Enti locali che vogliono la loro parte. Trascuriamo inoltre, per carità di patria, di parlare degli altri numerosissimi balzelli imposti dalla burocrazia.

I mali dell’Amministrazione finanziaria e le rivendicazioni dei funzionari del fisco furono portate avanti, già nel lontano 1988, da un’ associazione (Assodirfin) da me co-fondata, nata a Genova e poi divenuta nazionale, che ottenne un’adesione massiccia in tutta Italia. In tempi non sospetti avevo capito che lungi dal voler riconoscere un ruolo peculiare e di particolare importanza a questo settore della pubblica Amministrazione, era in atto un complesso gioco al massacro, sostenuto dalle forze politiche e sociali, per accentrare a Roma (attraverso la neonata Sogei) la programmazione dell’attività accertatrice, togliendo ogni iniziativa agli Uffici locali.

Gli accertamenti sarebbero stati standardizzati (così è avvenuto prima con i “parametri” e poi con gli “studi di settore”) e senza neanche il beneficio di un contraddittorio. Gli uffici sarebbero stati omologati sia negli arredi che nelle funzioni, i funzionari entrati nella carriera direttiva, allettati dal titolo altisonante di “procuratore”, furono, dalla “nomenclatura” con a capo l’on.le Benvenuto, l’ideatore dei famosi “livelli”, rinominati banalmente “8° o 9° livello” alla pari di altri impiegati di altri rami della Pubblica Amministrazione. I posti da dirigente, per cronica mancanza di fondi, sarebbero stati ricoperti da non dirigenti, con responsabilità grandissime da gestire, ai quali sarebbe stato riconosciuto un premio di produttività. Tutto questo in un periodo di grandi riforme legislative in cui veniva, al contrario, richiesta agli operatori una sempre maggiore professionalità.

La nascita di Assodirfin fu salutata come una grande novità e l’espressione di un’ansia di rinnovamento nata dal cuore dell’Amministrazione finanziaria, in quanto oltre al riconoscimento del ruolo si rivendicava un Fisco giusto ed efficiente. Ottenemmo grande risalto sui giornali, marciammo a Genova, noi funzionari del Fisco, contro il Fisco. Ci presentammo alle elezioni per i componenti del Consiglio di Amministrazione riuscendo a far si che il Salfi (sindacato autonomo assolutamente inefficiente) perdesse un seggio su cinque. Purtroppo il Governo, il Parlamento, le parti sociali non capirono. Non vollero capire i sindacati confederali, perché non se la sentivano di avallare la nostra rivendicata peculiarità. Rimase sorda la Dirstat, che doveva sostenere identiche rivendicazioni per tutto il comparto della dirigenza dello Stato e che anzi, danneggiandoci, bloccò con un ricorso al Tar un concorso per la dirigenza che avrebbe potuto dare qualche respiro alle nostre istanze. Dopo tre anni diedi le dimissioni da vicepresidente e il sindacato finì.

Moltissimi funzionari con ottima esperienza abbandonarono l’Amministrazione in cerca di migliori riconoscimenti.

La storia ha dimostrato che tenere sotto scacco un ramo di importanza basilare dello Stato come il Fisco e, peggio ancora, blandire i suoi dipendenti con i demotivanti e ingiustificati premi di produttività è una politica che non paga, al contrario sta producendo effetti paralizzanti dell’economia e destabilizzanti della società. I recenti episodi di aggressioni nei confronti degli uffici sono di inaudita gravità. Altro che la tanto decantata tax compliance!

A distanza di vent’anni perdura l’ottusità delle parti politiche e delle parti sociali. Non si è capito o si continua a non voler capire che l’equità fiscale potrà essere raggiunta solo con la semplificazione della normativa, con l’abbassamento delle aliquote, con il riconoscimento dell’importanza delle funzioni, con maggiore autonomia concessa agli uffici periferici, più consapevoli delle realtà locali, ed eliminando le standardizzazioni in uso (studi di settore, redditometro, parametri ecc.) che sono solamente metodi empirici di determinazione del reddito, contro i quali difficilmente il cittadino può difendersi. Perché il reddito da tassare (in misura equa) può essere solamente quello effettivo e non una fantasia matematico-statistica, con variabili introdotte volta a volta a seconda dell’urgenza. Soprattutto va eliminato il cosiddetto premio di produttività, in questo sono pienamente d’accordo con Dario Di Vico, perché il Fisco, ora più che mai non può essere “produttivo”, deve essere invece “ben organizzato”, ne deve essere assicurato “il buon andamento e l’imparzialità”, come recita espressamente la Costituzione, articolo 97.

*ex vicepresidente Assodirfin, associazione sindacale di categoria dei dipendenti pubblici.

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