Flexsecurity: sognando Danimarca

di Paolo Forcellini
Pubblicato il 19 Aprile 2011 - 19:06 OLTRE 6 MESI FA

Di flexsecurity, neologismo che indica una politica tesa a coniugare la massima flessibilità del mercato del lavoro (in entrata e in uscita) con la massima possibile sicurezza del lavoro o quantomeno del reddito, si è parlato già abbastanza in passato, prima ancora che la crisi economica internazionale esplodesse e quando i tassi di disoccupazione italiani apparivano quasi “virtuosi” (attorno al sei per cento). Ora, a riportare quell’idea all’onore delle cronache economiche e politiche ci hanno pensato, l’8 aprile, con un articolo sul “Corriere”, il giuslavorista e parlamentare Pietro Ichino (che è probabilmente la massima autorità in materia avendo anche elaborato un’articolato disegno di legge nel 2009), l’imprenditore Luca di Montezemolo e l’economista e senatore Nicola Rossi. Un imprimatur politico è venuto nei giorni successivi anche dal presidente della Camera, Gianfranco Fini.

Prendiamo come base di partenza la proposta Ichino, che è assai articolata, e cerchiamo di riassumerne i punti salienti. Essa riguarderebbe tutte le nuove assunzioni: le numerose forme contrattuali a tempo determinato, con l’eccezione di quelle che rispondono a esigenze molto specifiche come i contratti interinali per le sostituzioni, i contratti di formazione e quelli stagionali, sono riunite assieme ai contratti a tempo indeterminato sotto una sola tipologia, il contratto unico. Quest’ultimo è a tempo indeterminato ma – e questa è la grande innovazione – prevede la possibilità di licenziamento senza intervento giudiziale a parte i casi di licenziamenti disciplinari o di sospette discriminazioni.

Per i lavoratori estromessi, e con esclusione dei primi sei mesi di “prova”, sono previsti due tipi di indennità-sostegno. La prima: un contratto di ricollocazione che garantisce un’indennità complementare di disoccupazione (aggiunta all’attuale indennità di disoccupazione, che dura al massimo un anno, si raggiungerebbe il 90 per cento della retribuzione il primo anno, l’80, il 70 e il 60 per cento nei tre successivi) subordinata alla partecipazione ad iniziative di riqualificazione e ricerca di un nuovo posto di lavoro, organizzate da un’agenzia che riceverebbe contributi regionali per l’organizzazione di quelle attività. Il trattamento di disoccupazione complementare sarebbe invece a carico delle imprese che licenziano. La seconda protezione: sempre le aziende dovrebbero farsi carico di un’indennità di preavviso pari a una mensilità di stipendio per ogni anno lavorato.

Ne consegue che, considerata la spesa, i datori di lavoro prima di ridurre la manodopera dovrebbero pensarci due o più volte e, comunque, sarebbero fortemente interessati a ricollocare al più presto i licenziati perché l’onere del primo anno a loro carico sarebbe minimo per via del contributo dell’indennità di disoccupazione ordinaria. Ciò fra l’altro ridurrebbe anche le fluttuazioni cicliche particolarmente forti per l’occupazione precaria. Inoltre i lavoratori con maggiore anzianità avrebbero una maggiore protezione. Il tutto verrebbe accompagnato da modifiche nella contribuzione sociale e a un forte risparmio sulle spese di cassa integrazione: ciò renderebbe l’operazione di riforma pressoché a costo zero, soprattutto se si mettono nel conto i risultati complessivi di maggiore flessibilità del mercato del lavoro. Ichino, Montezemolo e Rossi propongono anche di innalzare di un anno l’età del pensionamento per coprire ulteriormente le spese della proposta e come segno di solidarietà intergenerazionale.

Senza entrare in altri, importanti dettagli, si deve ricordare che questo progetto e altri consimili prendono lo spunto dal sistema di flexsecurity vigente in Danimarca e che ha dato buona prova. Ma da noi l’ipotesi non piace a molti, a volte per motivi opposti. La Confindustria e alcuni ultras liberali (Francesco Forte e Michele Tiraboschi, ad esempio) vi vedono una riduzione troppo drastica delle forme contrattuali e quindi della sovrana libertà dei soggetti di mercato nel scegliere la tipologia di accordo più appropriata alle esigenze delle singole imprese: ne conseguirebbe una minore domanda di lavoro. Ma di questo passo si può arrivare anche a sostenere che qualsivoglia deregulation del mercato del lavoro (orari senza limiti, salari senza minimi, ricorso illimitato al lavoro minorile, ecc.) aumenta l’occupazione. Il che può anche essere vero, ma a quale prezzo? A sinistra, invece, e soprattutto da parte sindacale, si teme soprattutto l’abolizione dell’amatissimo articolo 18 dello Statuto dei lavoratori che impedisce i licenziamenti senza “giusta causa” nelle imprese con più di 15 occupati (circa la metà dell’occupazione dipendente totale): “Non mi sembra che abolire l’articolo 18 possa risolvere i problemi del precariato”, ha tuonato ad esempio contro la flexsecurity Paolo Pirani della Uil.