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Flexsecurity: sognando Danimarca

di admin |19 Aprile 2011 20:34

Foto Lapresse

Sul terreno dell’occupazione il Bel paese, come ricordano a ogni pie’ sospinto i vari Tremonti, Sacconi & c., se la passa meglio di molti suoi partner Ue: “la nostra disoccupazione è a un livello distante quasi due punti dalla disoccupazione media europea”, ricorda ad esempio il ministro del Welfare, pur riconoscendo che quell’8,7 per cento (che non è proprio poco) sarebbe superiore al 10 se non vi fosse la cassa integrazione a velare la realtà.

Osservandola più da vicino, la “normale” (in anni di crisi) disoccupazione italiana presenta però almeno sei punti di drammatica criticità:

  1. I giovani tra 15 e 25 anni sono disoccupati quasi al 30 per cento e anche quelli tra 25 e 30 non se la passano molto meglio;
  2. Esiste una fetta di over-45 che hanno perso il posto e non riescono più a rientrare nei ranghi degli occupati. E’ un gruppo numericamente limitato ma strutturalmente assai difficile da riassorbire e portatore di un malessere sociale acuto;
  3. Il tasso di occupazione italiano, pari al 57 per cento delle persone in età da lavoro, è particolarmente basso rispetto alla maggior parte degli altri paesi europei, anche a causa del fenomeno dei cosiddetti “scoraggiati” – quelli cioè che non cercano più lavoro perché lo ritengono introvabile – che è in Italia molto forte, in aumento e contribuisce a edulcorare le statistiche;
  4. E’ in forte crescita la quota di lavoro a tempo determinato rispetto a quello a tempo indeterminato: secondo una ricerca Uil il 76 per cento degli assunti tra gennaio 2009 e giugno 2010 erano “precari”. Uno studio su cinque regioni del Nord più le Marche ha stabilito che solo il 15 per cento dei nuovi occupati del 2010 ha ottenuto un lavoro a tempo indeterminato, l’85 per cento sono stati invece chiamati con contratti a tempo determinato (62) o di apprendistato o di somministrazione, tre modalità contrattuali che nel 2008 assorbivano “solo” il 77 per cento del totale degli assunti. Il più recente “Bollettino” della Banca d’Italia nota anch’esso che “sono rimaste estremamente contenute le assunzioni a tempo indeterminato e le trasformazioni dei contratti a termine in posizioni permanenti”. Tra il quarto trimestre 2010 e lo stesso periodo dell’anno precedente si sono persi altri 223 mila posti a tempo indeterminato mentre se ne creavano circa altrettanti di lavoro a tempo determinato o a tempo parziale;
  5. Il tasso di occupazione femminile non raggiunge il 50 per cento (46,5);
  6. La disoccupazione è particolarmente elevata nel Mezzogiorno.

Le tradizionali politiche per incentivare l’occupazione, da quelle macro di sostegno alla domanda e agli investimenti a quelle mirate alla formazione e riqualificazione professionale, certamente producono qualche effetto sul tasso di occupazione complessivo ma sembra possano poco nell’aggredire con decisione i punti di alta criticità or ora ricordati. Vi è invece una strada, quella della cosiddetta “flexsecurity”, che pare la più adatta per affrontare i primi quattro problemi ricordati (e in parte anche gli ultimi due).

Di flexsecurity, neologismo che indica una politica tesa a coniugare la massima flessibilità del mercato del lavoro (in entrata e in uscita) con la massima possibile sicurezza del lavoro o quantomeno del reddito, si è parlato già abbastanza in passato, prima ancora che la crisi economica internazionale esplodesse e quando i tassi di disoccupazione italiani apparivano quasi “virtuosi” (attorno al sei per cento). Ora, a riportare quell’idea all’onore delle cronache economiche e politiche ci hanno pensato, l’8 aprile, con un articolo sul “Corriere”, il giuslavorista e parlamentare Pietro Ichino (che è probabilmente la massima autorità in materia avendo anche elaborato un’articolato disegno di legge nel 2009), l’imprenditore Luca di Montezemolo e l’economista e senatore Nicola Rossi. Un imprimatur politico è venuto nei giorni successivi anche dal presidente della Camera, Gianfranco Fini.

Prendiamo come base di partenza la proposta Ichino, che è assai articolata, e cerchiamo di riassumerne i punti salienti. Essa riguarderebbe tutte le nuove assunzioni: le numerose forme contrattuali a tempo determinato, con l’eccezione di quelle che rispondono a esigenze molto specifiche come i contratti interinali per le sostituzioni, i contratti di formazione e quelli stagionali, sono riunite assieme ai contratti a tempo indeterminato sotto una sola tipologia, il contratto unico. Quest’ultimo è a tempo indeterminato ma – e questa è la grande innovazione – prevede la possibilità di licenziamento senza intervento giudiziale a parte i casi di licenziamenti disciplinari o di sospette discriminazioni.

Per i lavoratori estromessi, e con esclusione dei primi sei mesi di “prova”, sono previsti due tipi di indennità-sostegno. La prima: un contratto di ricollocazione che garantisce un’indennità complementare di disoccupazione (aggiunta all’attuale indennità di disoccupazione, che dura al massimo un anno, si raggiungerebbe il 90 per cento della retribuzione il primo anno, l’80, il 70 e il 60 per cento nei tre successivi) subordinata alla partecipazione ad iniziative di riqualificazione e ricerca di un nuovo posto di lavoro, organizzate da un’agenzia che riceverebbe contributi regionali per l’organizzazione di quelle attività. Il trattamento di disoccupazione complementare sarebbe invece a carico delle imprese che licenziano. La seconda protezione: sempre le aziende dovrebbero farsi carico di un’indennità di preavviso pari a una mensilità di stipendio per ogni anno lavorato.

Ne consegue che, considerata la spesa, i datori di lavoro prima di ridurre la manodopera dovrebbero pensarci due o più volte e, comunque, sarebbero fortemente interessati a ricollocare al più presto i licenziati perché l’onere del primo anno a loro carico sarebbe minimo per via del contributo dell’indennità di disoccupazione ordinaria. Ciò fra l’altro ridurrebbe anche le fluttuazioni cicliche particolarmente forti per l’occupazione precaria. Inoltre i lavoratori con maggiore anzianità avrebbero una maggiore protezione. Il tutto verrebbe accompagnato da modifiche nella contribuzione sociale e a un forte risparmio sulle spese di cassa integrazione: ciò renderebbe l’operazione di riforma pressoché a costo zero, soprattutto se si mettono nel conto i risultati complessivi di maggiore flessibilità del mercato del lavoro. Ichino, Montezemolo e Rossi propongono anche di innalzare di un anno l’età del pensionamento per coprire ulteriormente le spese della proposta e come segno di solidarietà intergenerazionale.

Senza entrare in altri, importanti dettagli, si deve ricordare che questo progetto e altri consimili prendono lo spunto dal sistema di flexsecurity vigente in Danimarca e che ha dato buona prova. Ma da noi l’ipotesi non piace a molti, a volte per motivi opposti. La Confindustria e alcuni ultras liberali (Francesco Forte e Michele Tiraboschi, ad esempio) vi vedono una riduzione troppo drastica delle forme contrattuali e quindi della sovrana libertà dei soggetti di mercato nel scegliere la tipologia di accordo più appropriata alle esigenze delle singole imprese: ne conseguirebbe una minore domanda di lavoro. Ma di questo passo si può arrivare anche a sostenere che qualsivoglia deregulation del mercato del lavoro (orari senza limiti, salari senza minimi, ricorso illimitato al lavoro minorile, ecc.) aumenta l’occupazione. Il che può anche essere vero, ma a quale prezzo? A sinistra, invece, e soprattutto da parte sindacale, si teme soprattutto l’abolizione dell’amatissimo articolo 18 dello Statuto dei lavoratori che impedisce i licenziamenti senza “giusta causa” nelle imprese con più di 15 occupati (circa la metà dell’occupazione dipendente totale): “Non mi sembra che abolire l’articolo 18 possa risolvere i problemi del precariato”, ha tuonato ad esempio contro la flexsecurity Paolo Pirani della Uil.

La difesa rigida dei lavoratori “garantiti” fa quindi premio sul tentativo di ridurre il lavoro precario che sta dilagando e che priva molti giovani, ma ormai anche molti che sono sempre meno giovani dopo decenni di “flessibilità”, della possibilità di vivere da soli, farsi una famiglia, contrarre un mutuo, avere una minima certezza sul loro futuro professionale. Il progetto Ichino del 2009, peraltro, non ci sembra immodificabile. Ad esempio, per ridurne i costi ed eventualmente dirottare i risparmi su altri aspetti o su altre fasce di lavoratori, il periodo di prova (sei mesi durante i quali non spetta alcun risarcimento speciale per l’eventuale licenziamento) potrebbe venire allungato un po’: sarebbe comunque una situazione più accettabile di un susseguirsi pressoché infinito di contratti a tempo determinato. Con segno opposto, l’indennità di preavviso potrebbe divenire maggiore di un mese (per anno lavorato), anche studiando opportuni sgravi fiscali. Ancora una volta, per quel che riguarda il sindacato, ci vorrebbe un esame di coscienza per stabilire chi effettivamente si vuole rappresentare e comunque se una miope rigidità sia la strada giusta.

Altre obiezioni alla flexsecurity – e non specificatamente alla proposta Ichino – paiono meritare una particolare riflessione. Ad esempio, ha notato l’ex leader carismatico della Cisl Pierre Carniti, la Danimarca destina alla spesa sociale (pensioni escluse) quasi il doppio dell’Italia (18,8 per cento del Pil contro il 10,4) e quindi il welfare che sta “intorno” alla flexsecurity è di ben altra portata (ma i danesi pagano anche molte più tasse).

Un’altra critica sollevata contro la flexsecurity all’italiana concerne la minor dotazione di “virtù civiche” di cui disporrebbe il Bel paese: in molti cioè temono che le indennità previste per i licenziati diventino più appetibili dei posti di lavoro, specie se coniugate a qualche dose di lavoro nero, e che le agenzie per la riqualificazione e il ricollocamento diventino carrozzoni sommersi da ricorsi al Tar, certificati di malattia, truffe e truffette varie per evitare di tornare a “faticare” in occupazioni poco ambite. E’ un rischio reale, ammettiamolo.

Riassumendo: un sistema basato sulla flexsecurity permetterebbe un drastico ridimensionamento del precariato; una flessibilità del lavoro generalizzata – e il cui costo non graverebbe esclusivamente sulle spalle dei più giovani o dei più sfortunati – e quindi l’incentivo ad aumentare i livelli occupazionali; una protezione sostanziosa per i più anziani anche se l’articolo 18 venisse abbandonato. Si apriranno dunque problemi nuovi, come si è accennato, ma il gioco vale la candela.

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