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Genova città capovolta, nel calcio e nelle grandi opere, domina il partito del mugugno, del maniman e scetticismo

Genova è una città capovolta. Nel calcio e nelle grandi opere che puoi girare in un senso o nell’altro: grandi trionfi e annunci e fallimenti, retrocessioni o stop clamorosi di Tribunali.

E poi c’è il solito partito del “no” del mugugno, del maniman, lo scetticismo blù che frena e rimanda. All’infinito.

Il Genoa Criket Foot Ball Club celebra i 130 anni della sua storia tornando in serie A in “only one year”, un solo anno di serie B, come urlano gli slogan della sua nuova e ricca proprietà americana di Miami Beach dei 777, capeggiata dal tifoso presidente, Alberto Zangrillo, supermedico, archiatra di Berlusconi.

E la città impazzisce letteralmente, riempie lo stadio con 33 mila tifosi, invade le strade, manco fossimo a Napoli dello scudetto. Nella piazza principale per eleganza e collocazione, a Corvetto, hanno teso una immensa bandiera rossoblù, appendendola ai tetti dei palazzi.

Sull’altro fronte calcistico, quello della Sampdoria, squadra nata nel 1946 geograficamente a Ponente, nella delegazione di Sampierdarena, ma molto più fortunata perché via via posseduta da grandi imprenditori, della finanza, dell’ armamento, del petrolio, con i Ravano delle 65 navi, anni Sessanta, ai Lollighetti armatore moderno anni Settanta, ai Mantovani delle grandi fortune di broker del petrolio e dei noli marittimi anni Ottanta, ai Garrone del petrolio diventato energia green, anni Novanta e Duemila, sta precipitando in serie B. Sportivamente già retrocessa.

Non solo: il suo destino, legato all’ultimo proprietario, Massimo Ferrero, non quello della Nutella, ma un romano di Trastevere, produttore cinematografico, proprietario di cinema e di altre aziende, oggi tutte a catafascio, nonché ex comparsa di Cinecittà, sopranominato “Viperetta” da niente meno che Monica Vitti, sembra catastrofico.

I blucerchiati nell’anno in cui è mancato Gianluca Vialli il simbolo numero uno, con Robero Mancini, il trainer della Nazionale, potrebbero perfino perdere il titolo sportivo, essere declassati fino alla serie D, precipitare in un abisso.

Tutta colpa di questo Ferrero, che si aggrappa al valore residuale della società, dopo sei mesi di galera per la bancarotta di altre sue aziende e non vuole vendere, se non incassa almeno 40 milioni, vendendo una società che, con la sua disinvolta gestione, ha un buco di 200 milioni e da mesi neppure i soldi per pagare i magazzinieri.

Una tragedia sportiva capovolta rispetto all’altra cittadina, accentuata da una sanguinosa rivalità tra una tifoseria che celebra il funerale dell’altra e inventa sfottò con la strisciante e velenosa ironia, tipica di una tradizione sapida e improvvisamente fantasiosa.

Anche i tifosi della Samp riempiono lo stadio per assistere alle partite disastrose della loro squadra e mettono in croce l’ex presidente Garrone, colpevole di avere, nove anni fa, venduto la società a quel Ferrero, che è diventato una macchietta tragica con le sue comparate perfino al Festival di Sanremo, senza adeguate informazioni sull’acquirente, che nel giorno stesso della sua presentazione si beccava una condanna per il fallimento della società di navigazione della quale era socio, la Livinghston.

Così Edoardo Garrone, uno dei cinque figli del grande Riccardo, è diventato un perseguitato, costretto a proteggere se stesso e la sua famiglia, mentre i muri della città sono pieni di scritte contro di lui, in un delirio che non finisce più.

Così capovolta calcisticamente Genova va avanti verso un finale di primavera segnato da questo parallelismo: le feste dei rossoblù genoani che scuotono strade e piazze, culminando nei luoghi simbolo, compresi Lanterna e il borgo incantato di Boccadasse sul mare dove sventola, piantata sugli scogli, una bandiera rossoblù, che è diventata il motivo di uno scontro con ricorsi al Tar dei sampdoriani.

E dall’altra parte le cadenze del dramma sportivo-giudiziario-fallimentare dei “cugini”, tra assemblee, consigli di amministrazione, scadenze federali, un un dedalo che potrebbe finire o con il fallimento e il precipizio finale e la prospettiva che nel prossimo anno la squadra, con un nome diverso, giochi sui campi periferici o con una salvezza miracolosa, se si troverà un acquirente conciliabile con una procedura che consente il suo ingresso, la soddisfazione economica al proprietario attuale e la ristrutturazione del debito con le tante banche creditrici.

Da mesi compaiono nomi di ipotetici acquirenti, sceicchi, emiri e perfino il padrone del caffè Segafredo, Enrico Zanetti, ma non ci sono mai conferme e passi avanti autentici.

A una settimana dalla fantasmagorica inaugurazione della diga super, che cambierà la faccia del porto e della città in tre anni, riportando Genova a un livello di competitività mondiale nei traffici marittimi, che erano già stati agognati ( e qualche volta raggiunti), nella sua secolare storia di capitale del mare, un colpo di scena ha teoricamente capovolto anche questa prospettiva. L’inesorabile Tar Liguria ha reso nullo il contratto che autorizzava il superpool di costruttori, tra i quali We build di Salini, ex Impregilo e Fincantieri-Fincosit- Sidra a realizzare la grande opera, accogliendo il ricorso dei concorrenti, il gruppo Gavio, associato a una potente società spagnola.

La terribile botta non inficia la costruzione, che è sotto l’ombrello protettivo del PNRR ed è già cominciata con le opere di consolidamento del fondale a 500 metri dalla diga precedente e 50 metri di profondità. Ma potrebbe portare a un risarcimento per i concorrenti sconfitti, in una cifra molto oscillante, tra pochi milioni e decine, per un valore complessivo della mission -diga che è di 1 miliardo e trecento milioni.

Intanto l’Autorità di Sistema portuale, che è la parte soccombente nella vicenda e che è presieduta da Paolo Emilio Signorini, ha annunciato l’inevitabile ricorso al Consiglio di Stato e spinge i lavori che devono essere conclusi entro il 2026.

Genova inevitabilmente si capovolge di fronte a questo dibattito diventato pure giudiziario, perché di fronte a questa opera “sconvolgente” che ha un consenso partito politico abbastanza generale, compreso il Pd, schierato all’opposizione, il blocco del “no” si sta rinforzando non solo nei comitati che temono l’invasività dei lavori di costruzione, molto impegnativi su tutto il territorio ligure per l’installazione di grandi cantieri dove riempire i mega cassoni da calare in mare.

C’è anche un fronte più “intellettuale”, che critica la precarietà dei progetti, “sfrutta” le pesanti osservazione di geo ingegneri come Piero Silva, diventato il faro della opposizione alla diga, con una lettera di dieci pagine, il vangelo del “no”, nel quale si sottolinea il rischio colossale di un possibile crak della costruzione, come avvenuto in altri porti e si suggerisce una soluzione diversa, più vicina alla costa e con un fondale più abbordabile. Da cinquanta a trenta metri di profondità.

Ma ci sono altre realtà, anche lontane dal tifo calcistico o dall’orizzonte di un decisivo sviluppo economico marittimo, che si capovolgono e introducono il tema della difficoltà genovese a “sbloccarsi”.

Così come la diga, che sta per essere sostituta, era stata voluta e finanziata dal marchese De Ferrari, duca di Galliera, anche l’ospedale Galliera , voluto e finanziato dalla di lui moglie, Maria Brignole Sale, appunto duchessa di Galliera, si “capovolge” a Genova in questo finale di primavera.

La gara per costruire il nuovo Galliera, con un progetto oramai decennale, è stata improvvisamente annullata e l’operazione chiave per creare nel cuore di Genova un nosocomio moderno e più in sintonia con le esigenze di una popolazione anziana e fragile, riparte da zero.

Anche qui hanno alla fine vinto i partiti del “no”, le infinite opposizioni di comitati e blocchi di potere, da chi non vedeva bene una trasformazione moderna del quartiere centrale di Carignano, a chi faceva i suoi giochetti di politica sanitaria, in una città dove tutti gli ospedali sono in qualche modo sotto scacco.

Non solo il Galliera ottocentesco, ma anche il mitico Gaslini, novecentesco, costruito per curare i bambini, che sta per affrontare una necessaria operazione di trasformazione, e il san Martino, ristrutturato solo in parte nel dopoguerra, che ha una struttura antica di padiglioni storici e aspetta una razionalizzazione.

In realtà Genova-Ospedali andrebbe veramente capovolta, sopratutto dopo la prova della pandemia, ma per un altro verso e, invece, oggi la capriola e all’incontrario, salvo forse al Gaslini, tra l’altro oggi presieduto da Edoardo Garrone, il perseguitato dai tifosi sampdoriani, dove i lavori dovrebbero cominciare in estate.

Il Galliera si blocca dopo tanti anni di scontri, progetti e discussioni, malgrado le benedizioni di vescovi e cardinali che presiedono il suo consiglio di amministrazione, dove siede la “crema” dei professionisti genovesi. Inutilmente. 

Franco Manzitti

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