ROMA – Il povero professor Giarda, già incaricato del potere di vita o di morte su questo o quel ramo secco della spesa pubblica, è stato isolato, emarginato nel governo? La spending review doveva essere lo strumento imprescindibile per poi procedere ai tagli senza ricorrere ai dolorosi e autolesionistici tagli orizzontali. Che fine ha fatto? Il ministro per i Rapporti con il Parlamento Giarda, nelle intenzioni di inizio mandato, avrebbe dovuto completare la famosa spending review entro aprile. Al quotidiano Libero che lo incalzava sulla questione, Giarda ha risposto per interposto Corriere della Sera. Nega frizioni, si guarda bene dall’accusare qualcuno, ma su un punto ammette, “è un’operazione complicata alla quale sto lavorando pressoché da solo e quasi a titolo personale”.
Libero ha buon gioco a replicare che quindi la colpa del ritardo è del premier Monti e del suo vice all’Economia, Vittorio Grilli. In effetti, secondo Libero con la conferma dal Corriere, anche i muri sanno, a Via Venti Settembre, sede del Ministero dell’Economia, che tra Grilli e Giarda non c’è un buon feeling. Addirittura i due nemmeno non si parlerebbero. Comunque, Libero ricava due certezze. Lo stato avanzamento lavori non sta rispettando la tabella di marcia. E, soprattutto, dall’Economia, dalla Ragioneria dello Stato, dagli altri ministeri non collaborano, Giarda è rimasto solo.
Altro elemento preoccupante è l’effettiva portata della spending review. Si starebbe tentando di minimizzarne il contributo, sempre secondo Libero, perché in realtà non si vuole attaccare la spesa pubblica. Anche il Corriere parla di “mani avanti” di Giarda che alla Stampa aveva confidato di non aspettarsi “tesoretti” nascosti in quei bilanci da revisionare. Il rischio è che da imprescindibile, la spending review si trasformi in un esercizio accademico, cose da professori senza potere di impugnare materialmente le forbici. Giarda promette che al più tardi all’inizio di maggio presenterà un “paper analitico con l’indicazione delle criticità”.
Aspettiamo trepidanti, anche perché degli ottocento miliardi di euro che ogni anno escono dalle casse dello Stato qualcosa di più di una mancia servirà a evitare manovre ulteriori, manovre che secondo il Financial Times l’Europa ci ha già chiesto. Senza contare che nei piani di risanamento affrontati dai vari stati l’Italia contribuisce con un taglio del 28% della spesa pubblica, contro l’80% degli inguaiati spagnoli e di britannici, il 67% del Portogallo, il 60% dell’Irlanda e il 55% della Grecia. Ovvio che risuoni ancora l’ammonimento di Luca Ricolfi sull’inevitabilità della mannaia affidata allora a Tremonti: “l’opzione dei tagli non lineari, selettivi, pavlovianamente invocata dall’opposizione e dai sindacati appena Tremonti fa bau, semplicemente non esiste”. Una spending review seria richiede uno studio di un paio di anni di lavoro serio. Aprile o maggio, non cambia mica tanto.