Italia ottava potenza industriale. Squinzi: finita la recessione

Italia ottava potenza industriale. Squinzi: la recessione è finita
Italia ottava potenza industriale. Squinzi: la recessione è finita

ROMA – L’Italia è l’ottava potenza manifatturiera del mondo, la seconda in Europa per capacità d’innovazione, e negli undici mesi dal settembre 2014 agosto 2015 ha fatto segnare un più 2,3% di ripresa: lo dicono i numeri forniti dal Centro Studi di Confindustria, numeri che il presidente degli industriali Giorgio Squinzi non può non salutare positivamente.

Aggiungi che l’Unione Europea ha rivisto al rialzo le stime sull’Italia, pronosticando che alla fine del 2015 il Prodotto interno lordo sarà cresciuto dello 0,9% e nel 2016 dell’1,5%. Squinzi, in un intervento riportato da Nicoletta Picchio sul giornale di Confindustria (il Sole 24 Ore), si spinge fino a dire che “l’Italia è uscita dalla recessione”:

«L’Italia è finalmente e faticosamente uscita dalla recessione». Giorgio Squinzi ha assistito alla presentazione del documento del Centro studi di Confindustria sugli Scenari industriali.

Ieri la Ue ha rivisto al rialzo le stime del pil dell’Italia, portandole allo 0,9% per il 2015: «Sono in linea con le previsioni del nostro Centro studi, confermano che c’è un miglioramento, dovremmo vedere l’uscita dal tunnel a breve», ha detto Squinzi. Ma c’è ancora una forte componente dei fattori esterni, come il prezzo del petrolio, il cambio euro-dollaro, il Quantitative easing. La legge di stabilità per il presidente di Confindustria è complessivamente positiva, con le criticità però di un insufficiente sostegno a ricerca e innovazione e di un’azione per il Sud. «Il Mezzogiorno – ha continuato – deve trovare un tipo di specializzazione diversa dal manifatturiero del Nord. Deve basarsi su alcuni distretti industriali che ci sono anche al Sud, sull’eccellenza dell’agroalimentare e su altre caratteristiche più specifiche del Sud».

Il suo auspicio è che «la piena attuazione delle riforme possa dare un cambio di passo». Riforme, quindi, accanto ad una politica industriale che dia «attenzione ai fattori strutturali della competizione a medio-lungo termine, chiarezza nella scelta delle priorità, centralità dell’innovazione, valorizzazione del ruolo dell’impresa, utilizzo convergente di tutte le leve dell’intervento pubblico». Serve una politica che dia al paese grandi obiettivi che servano da «stelle polari» per lo sviluppo industriale e l’avanzamento tecnologico, scientifico, economico e sociale. Una politica che i competitors «si sono già dati e che in Italia fa ancora fatica». Ma ciò su cui Confindustria è geneticamente contraria, ha sottolineato il presidente, è l’idea di «una politica industriale in cui lo Stato indica alle imprese cosa devono fare o, peggio, interviene direttamente».

Primo intervento di politica industriale è, ha sottolineato Squinzi, quello in ricerca. «Le imprese sono pronte a fare investimenti, se c’è mercato». È importante, ha detto esplicitamente, il gioco di squadra: «Non si fa nulla da soli. Non ci sottrarremo al nostro ruolo di motore del cambiamento, per affrontare su nuove basi il rilancio della politica industriale nel nostro paese».

Ma oggi il tema del rilancio dell’Italia intreccia anche quello di un’Europa in grande difficoltà. «I nuovi assetti globali rendono evidente la necessità di un’Europa unita e forte in campo economico, politico e diplomatico», ha sottolineato Squinzi durante la lezione Angelo Costa all’università Luiss di Roma. «L’Europa è un grande progetto politico, la sua mancanza nel fronteggiare l’emergenza economica ha aperto il varco a nuovi nazionalismi. Per questo – ha aggiunto – va ritrovato lo spirito dei Padri fondatori su una visione politica che dovrebbe avviare il processo degli Stati Uniti d’Europa».

I numeri del Centro Studi Confindustria. L’industria italiana ha cominciato a risalire la china. […] Quindi il manifatturiero va avanti, «con un passo ancora lento» che ha segnato +2,3% cumulato in 11 mesi, da settembre 2014 ad agosto 2015. E «assai disomogeneo tra i comparti» a guardare le variazioni della produzione: +70% dell’automotive, +15% della farmaceutica, bevande, abbigliamento, macchinari e attrezzatura, +10% dei mobili e -3-4% nel legno, prodotti i metallo, pelletteria e calzature.

C’è un altra grande questione nel paese che il documento Scenari industriali, presentato ieri dal direttore del Csc, Luca Paolazzi, ha messo in evidenza: l’asimmetria Nord-Sud, che fa diventare «la riduzione del divario una sfida ancora più impegnativa e cogente». La vocazione manifatturiera, infatti, è caduta molto di più dove era già più bassa, ovvero nelle province meridionali, con cali anche vicini al 30 per cento.

[…] L’Italia resta l’ottava potenza industriale, nonostante la crisi, con una quota sulla produzione mondiale, 2,5%, che è un multiplo di quella demografica, 0,8%, a riprova della vocazione manifatturiera. La quota del manifatturiero sul totale dell’economia è scesa rispetto al 19,2% del 2000, passando al 15,3 nel 2013 e poi al 15,4 nel 2014, ma comunque davanti a Francia, Regno Unito e Spagna, dietro alla Germania. L’industria italiana si è contratta: -4,3 l’alimentare, – 53,7 il legno, -35 il tessile, con una media a -24% e solo il farmaceutico a +8,9. Ma le basi sono solide per rilanciare lo sviluppo.

Sono urgenti però «scelte politiche» ha sostenuto Paolazzi, sia per mettere a punto una «strategia coerente con una visione di lungo periodo», che in Italia sembra ancora mancare, sia nell’adottare misure concrete per realizzarla.
C’è bisogno di una politica per rafforzare la ricerca e sviluppo, in cui l’Italia resta ancora indietro. Su questo aspetto lo studio del Csc sfata il luogo comune che le imprese italiane fanno poca innovazione: al contrario, l’industria made in Italy ha un’elevata propensione ad innovare, ed è seconda solo alle aziende tedesche. Anzi, nell’innovazione di processo siamo anche davanti ai tedeschi. Inoltre la spesa in R&S è bassa, «ma in forte aumento». In Italia è alta anche la propensione ad investire, che è doppia rispetto a quella tedesca e francese, in linea con quella Usa ed è indice di grande vitalità imprenditoriale. Questi due aspetti, insieme all’ampia articolazione del manifatturiero e al secondo posto nel Trade Performance Index, sono la prova per il Csc, della forza e della vitalità del nostro sistema industriale.

Tra i fattori interni di cui tenere conto il Csc ha messo in evidenza l’andamento del costo del lavoro per unità di prodotto, che ha marciato a «ritmi costanti e indifferenti alla variazione della produttività». Questo ha comportato un’erosione della competitività e ne ha fatto le spese la redditività che è ai minimi. La crisi, ha sottolineato il documento, ha quindi messo a nudo i limiti dell’attuale assetto delle relazioni industriali e della contrattazione collettiva nazionale.

Ci sono anche una serie di fattori esterni che il Csc ha preso in considerazione per analizzare i «mutamenti profondi» in cui le imprese si trovano ad operare: c’è una stabilizzazione delle quote nazionali sulla produzione manifatturiera globale, un rallentamento degli scambi internazionali, una modificata struttura europea nella distribuzione delle produzioni manifatturiere, le materie prime a basso costo.
Dai nuovi Scenari industriali, conclude il Csc, si possono trarre sei lezioni per le imprese: internazionalizzare, diversificare, analizzare il mercato delle commodities e attrezzarsi per migliorarne l’uso, puntare sul legame tra retribuzioni e i risultati delle aziende, cavalcare Industria 4.0 anziché subirla, ispirarsi ai driver attorno al quali sono state disegnate le politiche industriali negli altri paesi industrializzati, che plasmeranno la domanda di domani.

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