Jobs Act. Chi è licenziabile? Statali, sopra i 15 dipendenti, sindacati, partiti

Pubblicato il 27 Dicembre 2014 - 11:45 OLTRE 6 MESI FA
Jobs Act. Chi è licenziabile? Statali, sopra i 15 dipendenti, sindacati, partiti

Jobs Act. Chi è licenziabile? Statali, sopra i 15 dipendenti, sindacati, partiti

ROMA – Cosa cambia nello Statuto dei Lavoratori con il Jobs Act? A chi si applicano le nuove norme? Chi è al sicuro e chi non lo è dai licenziamenti cui la nuova legge ha aperto la porta? E il tanto combattuto articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori è ancora valido e per chi?

Il decreto approvato la vigilia di Natale, precisa il Messaggero,

“prevede in modo esplicito che la nuova disciplina in materia di licenziamenti si applichi esclusivamente a operai, impiegati e quadri assunti con contratto a tempo indeterminato a partire dalla data di entrata in vigore del provvedimento stesso, quindi il giorno successivo alla pubblicazione in Gazzetta ufficiale. Non cambia nulla quindi per i lavoratori dipendenti che hanno già un rapporto di lavoro: resteranno in vigore le precedenti regole sui licenziamenti, così come erano state modificate nel 2012 dalla riforma Fornero. Il meccanismo delle tutele crescenti si applicherà però anche alle aziende che superano la soglia dei 15 dipendenti per assunzioni successive all’entrata in vigore del decreto”.

E qui cominciano i dubbi e le interpretazioni. Non è facile capire e orientarsi nel linguaggio legalese e oscuro della nuova legge varata dal Consiglio dei Ministri la vigilia di Natale.

Intanto un atto di giustizia, come informa il Messaggero: “La nuova disciplina delle tutele crescenti si applica alle organizzazioni senza fini di lucro compresi partiti e sindacati, nelle quali in precedenza non era applicato l’articolo 18”. Prima pontificavano ma avevano mano libera a licenziare e lo hanno fatto con larghezza. Ora non lo potranno più fare.

Statali: si o no? Già litigano nel Governo e nella maggioranza, sugli ambiti di applicazione. Come riferiscono il Corriere della Sera e il Messaggero, il giuslavorista Pietro Ichino, senatore di Scelta Civica, che ha collaborato all’estensione del testo del decreto legislativo, sostiene che

“il contratto a tutele crescenti si applica a tutti i lavoratori dipendenti, compresi quelli pubblici. Secondo il ministro della Pubblica amministrazione, Marianna Madia, no. Si ripropone quindi lo scontro già avvenuto in occasione della riforma Fornero dell’articolo 18. In mancanza di norme che facciano chiarezza, la giurisprudenza è tuttora divisa sull’applicabilità delle norme sui licenziamenti ai dipendenti pubblici” (Corriere della Sera);

“un comma che escludeva espressamente il pubblico impiego sarebbe stato cancellato all’ultimo momento dal testo. Se questa interpretazione sarà confermata, le tutele crescenti si applicheranno anche agli insegnanti precari che dovrebbero essere assunti per il prossimo anno scolastico” (Messaggero).

Importante novità sull’articolo 18: non si applica, avverte il Corriere della Sera, a certe condizioni,

“se si superano i 15 addetti. Il nuovo contratto a tutele crescenti vale con le stesse regole per tutte le assunzioni, senza distinzioni tra aziende con meno o più di 15 dipendenti. Le imprese che supereranno la soglia dei 15 grazie ai dipendenti a tutele crescenti non saranno più soggette ad applicare l’articolo 18 dello Statuto (né sui vecchi né sui nuovi assunti). Le aziende saranno incentivate a crescere, anche perché oltrepassando la soglia dei 15 potranno in certi casi veder scendere l’indennizzo cui hanno diritto i licenziati”.

Il Messaggero precisa: “Con le nuove regole resta una separazione tra le imprese che hanno fino a 15 dipendenti e quelle al di sopra di questa soglia. Infatti il decreto esclude che la residua possibilità di reintegro in caso di licenziamento disciplinare (insussistenza del fatto materiale) si possa applicare alle imprese che non superano i quindici dipendenti. Inoltre per le piccloe aziende anche la misura degli indennizzi nei vari casi è dimezzata e non potrà comunque superare le sei mensilità”.

Una guida ci è offerta da Roberto Giovannini, che sulla Stampa di Torino, nel solco dell’indimenticato Sergio Devecchi, prova a tradurre in linguaggio accessibile ai comuni mortali e lavoratori.

Divide le fattispecie fra prima e dopo il Jobs Act, fra grandi e piccole imprese, fra licenziamenti discriminatori e disciplinaei.

GRANDI IMPRESE – PRIMA
Ogni dipendente di un’azienda con più di 15 persone poteva essere licenziato per ragioni «economiche» in cambio di un indennità monetaria. Ma: 1) si doveva passare per un giudice; 2) serviva molto più tempo; 3) l’azienda avrebbe speso di più (da un minimo di 12 a un massimo di 24 mensilità, più eventuali incentivi); 4) il giudice avrebbe potuto decidere di restituire il posto di lavoro al lavoratore licenziato, cioè la tutela dell’articolo 18. Le statistiche dimostrano che col vecchio sistema comunque il 75% dei lavoratori licenziati ha preferito uscire in cambio di soldi.

GRANDI IMPRESE – DOPO
Per chi ha già un contratto di lavoro attivo continuano a valere le regole della legge Fornero. Chi verrà assunto con un contratto «a tutele crescenti», è invece facilmente licenziabile: basterà pagare un’indennità che varia da un minimo di 4 mensilità di stipendio, e sale di 2 mensilità per anno di servizio fino a un tetto di 24 mensilità. Non si passa mai per il giudice, a meno che il lavoratore voglia cercare di dimostrare che si tratta di un licenziamento discriminatorio e nullo. La stessa disciplina riguarda anche i licenziamenti collettivi, quelli effettuati in caso di crisi aziendale.

PICCOLE IMPRESE – PRIMA
Per i dipendenti di aziende con meno di 15 dipendenti (se agricole, meno di 5) valevano le regole stabilite da una legge del 1990. Un datore di lavoro poteva così in ogni momento licenziare il suo dipendente. Se il lavoratore non è d’accordo, può chiedere l’intervento di un giudice per verificare se il licenziamento è illegittimo: il giudice condannerà l’azienda a versare una somma tra un minimo di 2,5 e un massimo di 6 mensilità. Normalmente le aziende pagano sempre l’indennità per evitare il passaggio dal giudice. Se il licenziamento è discriminatorio c’è la riassunzione.

PICCOLE IMPRESE – DOPO
Per tutti i nuovi assunti in una impresa di piccole dimensioni valgono le procedure stabilite per i licenziamenti economici nelle grandi aziende: soltanto che le indennità economiche sono dimezzate. In pratica, si parte da due mesi di stipendio il primo anno, si sale di una mensilità l’anno fino a un massimo indennizzo pari a sei mesi di stipendio del lavoratore.

LICENZIAMENTI DISCIPLINARI – PRIMA
In alcuni casi erano i contratti collettivi, in altri un giudice, a stabilire che cosa accadeva a un lavoratore licenziato per ragioni disciplinari, se la sanzione del licenziamento era proporzionata alla colpa commessa o meno. In generale, il lavoratore poteva recuperare il posto se il fatto contestato non esiste oppure rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa. In altri casi il lavoratore perdeva il posto, ricevendo però un’indennizzo dal datore di lavoro, variabile a seconda dei casi da un minimo di 6 a un massimo di 24 mensilità di stipendio.

LICENZIAMENTI DISCIPLINARI – DOPO
Adesso per tutti i lavoratori assunti dopo la riforma la reintegra nel posto di lavoro diventa molto più problematica. Resterà infatti in vigore soltanto per i soli casi di insussistenza materiale del fatto contestato, a prescindere da quello che stabiliscono i contratti. Parliamo di un numero estremamente ridotto di casi, dal punto di vista numerico. In tutte le altre situazioni il lavoratore sarà licenziato, e riceverà in cambio una indennità economica. Tuttavia, in caso di licenziamento disciplinare in ogni caso sarà inevitabile un passaggio davanti alla magistratura, che dovrà stabilire chi ha ragione.

LICENZIAMENTI DISCRIMINATORI – PRIMA

Se il licenziamento è riconosciuto come discriminatorio (legato a orientamenti sessuali, religione, opinioni politiche, attività sindacale, motivi razziali o linguistici, handicap, gravidanza, malattia, come stabiliscono leggi e Costituzione) il lavoratore oggi viene reintegrato dal giudice nel suo posto di lavoro. In più all’azienda si impone il pagamento dello stipendio maturato nel periodo di assenza obbligata per il lavoratore.

LICENZIAMENTI DISCRIMINATORI – DOPO
In questo caso non cambia nulla. La riforma Renzi però stabilisce che dagli stipendi arretrati il datore di lavoro possa detrarre quanto incassato dal lavoratore licenziato grazie ad altri lavori. Il risarcimento minimo è di cinque mensilità dello stipendio più contributi arretrati. Il lavoratore, se vuole, oltre al risarcimento potrà decidere di andarsene comunque dall’azienda, in cambio di un’indennità pari a 15 mensilità dell’ultima retribuzione globale.