ROMA – Scene da far west burocratico si sono svolte dietro le quinte del Jobs Act, nel tragitto fra il Ministero del Lavoro e Palazzo Chigi. Solo la bravura politica e la guardia sempre alta di Matteo Renzi e dei suoi pretoriani ha evitato che la riforma, come concepita da Renzi e attesa fuori Italia come prova della effettiva volontà e capacità di cambiamento, venisse svuotata. Avrebbero vinto Susanna Camusso e la sinistra estrema, ma avrebbero perso i giovani fuori del recinto magico del sindacato e l’Italia nel suo insieme.
Il racconto di Pietro Ichino, senatore di Scelta Civica e giuslavorista, esperto di diritto del lavoro, dà i brividi. Ichino entra in polemica con mezzo Governo Renzi, attaccando, sul suo blog e in una intervista con Lorenzo Salvia del Corriere della Sera, la sinistra Pd, gli anonimi sabotatori del Jobs Act annidati nel Ministero del Lavoro, lo stesso ministro del Lavoro Giuliano Poletti e la ministra per la Pubblica amministrazione Marianna Madia. La nuova legge è stata approvata dal Consiglio dei Ministri la vigilia di Natale
Tre sono i punti chiave dell’intervista:
1. l’applicabilità agli statali delle nuove norme sul lavoro e quindi sui licenziamenti;
2. il sabotaggio alla riforma delle leggi sul lavoro messo in atto nelle stanze e nei corridoi del Ministero.
3. il prevedibile contenzioso che si aprirà sull’insufficienza di prove, quando il lavoratore sia licenziato per avere commesso qualcosa e vinca la causa per insufficienza di prove: un conto è l’indennizzo, un conto sono gli indizi di colpevolezza che giustificano il mancato reintegro, sostiene Pietro Ichino
Pietro Ichino, riferisce Lorenzo Salvia, è “tra le poche persone che hanno vissuto dal di dentro la lunga trattativa sul Jobs act, prima come relatore al Senato del disegno di legge delega poi nell’elaborazione collettiva del primo decreto attuativo, quello sul contratto a tutele crescenti, e non ha dubbi:
“Certo che le nuove regole saranno applicabili anche ai dipendenti pubblici. Tanto è vero che, quasi all’ultimo momento, è stata cancellata la norma che ne prevedeva espressamente l’esclusione. Il testo unico dell’impiego pubblico stabilisce che, salve le materie delle assunzioni e delle promozioni, che sono soggette al principio costituzionale del concorso, per ogni altro aspetto il rapporto di impiego pubblico è soggetto alle stesse regole che si applicano nel settore privato”.
Pietro Ichino risponde a muso duro a Marianna Madia, ministro per la Pubblica amministrazione. Secondo Marianna Madia, gli statali sono esclusi dal Jobs Act, perché entrano per concorso e quindi seguono regole diverse. Ichino non ha peli sulla lingua:
“Qualche volta anche i ministri sbagliano, concorso non significa inamovibilità”.
Poi Pietro Ichino alza il tiro:
“Sbaglia chi voleva l’espressa esclusione dei dipendenti pubblici, come la minoranza di sinistra del Pd e probabilmente anche qualcuno all’interno delle strutture ministeriali. Non si rendono conto che il contratto a tutele crescenti costituisce l’unica soluzione possibile per il problema del precariato, anche nel settore pubblico. Il precariato è l’altra faccia, strutturalmente inevitabile, dell’inamovibilità dei lavoratori di ruolo”.
Non è stata partita facile superare l’ostruzionismo dei funzionari, anonimi ma feroci, come racconta Pietro Ichino nel suo blog:
“Per fortuna nel corso della nottata la norma che pretendeva di escludere dal contratto a tutele crescenti l’intero settore pubblico, [è] stata defalcata prima ancora della presentazione del testo legislativo al Consiglio dei Ministri; ma la negoziazione fino all’ultimo istante del testo legislativo ha finito col causare la mattina del 24 un ritardo di tre ore nell’inizio della riunione del Consiglio dei Ministri”.
Nel suo blog, a proposito dell’indennita di licenziamento, Pietro Ichino scrive anche di peggio, riferendosi a una “non identificata mano di estensore ostile alla riforma»”, alludendo, come nota Lorenzo Salvia, a qualche tecnico dello stesso Ministero:
“Sulla formulazione originaria si è inserita la mano di un estensore evidentemente ostile allo schema tedesco della conciliazione standard, la quale ha – inspiegabilmente – appesantito e irrigidito le modalità in cui l’offerta può essere rivolta dal datore al prestatore di lavoro licenziato, prevedendo che questo possa avvenire soltanto in una sede sindacale, amministrativa o giudiziale, secondo quanto previsto dal comma 4 dell’articolo 2113 cod. civ. e soltanto mediante offerta di un assegno circolare. Inspiegabilmente, perché la rinuncia a impugnare un licenziamento non costituisce rinuncia o transazione impugnabile a norma del suddetto articolo 2113; né si vede quale pericolosità sociale possa ravvisarsi nel pagamento eventualmente effettuato dal datore di lavoro in forma diversa dalla consegna di assegno circolare, per esempio mediante bonifico bancario”.
E va oltre:
“Nelle ultime settimane è apparsa chiara una cosa singolare: il ministero (o il ministro stesso?) del Lavoro non condivideva le linee fondamentali della politica del lavoro del Governo. Si adoperava per ridurre significativamente l’incisività della riforma più importante nel suo programma, in alcuni casi addirittura per destrutturarla dall’interno. Contrapponeva una propria bozza di decreto a quella costruita sui punti fondamentali indicati da Palazzo Chigi e dal ministro dell’Economia. Alla fine è stata solo la determinazione [di Matteo Renzi] che ha consentito di sventare gli attentati più pericolosi alla coerenza del disegno, uno per uno. Donde una domanda: non sarebbe urgente che premier e ministro del Lavoro, approfittando delle feste di fine anno, avessero tra loro un chiarimento approfondito, per evitare che anche sui prossimi decreti – e in particolare su quello che avrà per oggetto il Codice semplificato – si ripeta il braccio di ferro estenuante?”.
Chiede Lorenzo Salvia a Pietro Ichino: perché Poletti ha cambiato linea in questi ultimi giorni?
“Questo andrebbe chiesto a lui. Certo è che il 23 dicembre dal suo ministero è arrivata una bozza contenente, insieme ad altre cose incongruenti con la riforma, persino un drastico ridimensionamento della portata dello stesso decreto Poletti sui contratti a termine, emanato neanche nove mesi fa. Se non fossimo riusciti a sventarla, quella follia avrebbe minato la credibilità di tutta la riforma, sottolineandone una volatilità a dir poco patologica”.
Se il chiarimento con Renzi non dovesse esserci, Poletti dovrebbe dimettersi?, incalza Salvia:
“Non ho detto questo. Però, certo, il governo non può permettersi incoerenze con il proprio programma. Tanto meno sulla riforma del lavoro e su quella delle amministrazioni pubbliche, che ne costituiscono una parte fondamentale sul piano economico e su quello politico, interno ed europeo”.
Nel complesso, riferisce Lorenzo Salvia, Pietro Ichino dà al decreto approvato dal consiglio dei ministri
“un «sette» perché è un «passo avanti anche se non la riforma organica che avrebbe potuto essere». E, forse a sorpresa, insiste sull’opting out, cioè la possibilità per l’azienda di superare il reintegro diposto dal giudice in caso di licenziamento disciplinare illegittimo pagando un indennizzo più alto.
«È sicuramente tramontata la sua versione caricaturale – spiega – che compariva nell’ultima bozza: un opting out che costi all’impresa quasi quattro anni di retribuzione non interessa a nessuno. Resta il fatto che, se vogliamo davvero allinearci agli altri Paesi che applicano, sia pur marginalmente ed eccezionalmente, la reintegrazione nel posto di lavoro, dobbiamo introdurre anche noi questa “valvola di sicurezza”, per evitare che si determinino alcune situazioni paradossali, oggi purtroppo assai frequenti nelle nostre cronache giudiziarie».
Non basta, secondo lui, la nuova formulazione che stringe ancora di più la possibilità di reintegro e cioè il fatto che sia «direttamente» dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore. L’applicazione pratica la spiega così:
«Quando il lavoratore vince la causa per insufficienza di prove, è giusto che sia indennizzato. Ma gli indizi di colpevolezza che in questo caso pur sempre restano ben possono costituire una giustificazione oggettiva del fatto che l’impresa non rinnovi il proprio affidamento in lui» “.