La colpa della crisi economica è degli infelici, parola del Nobel Joseph Stigliz

Nei ”ruggenti” anni Novanta, come li chiama il Nobel per l’Economia Joseph Stiglitz, a New York la gente si cospargeva di un’acqua di colonia battezzata Happy (Felice). Sull’altra sponda dell’Atlantico, a Londra, ragazzi su di giri offrivano, nei locali notturni, bustine con stampata la faccina che ride. Contenevano ecstasy.

Ovunque, vecchio o nuovo mondo che fosse, rimbalzava l’eco di un ossessivo ritornello: Don’t worry, be happy. Cronache del secolo passato: da archiviare. E invece no, spiegano gli economisti e in particolare uno, Stefano Bartolini, Università di Siena: erano i sintomi, ancora difficili da interpretare, di una grave malattia che avrebbe causato la più drammatica crisi economia del dopoguerra, quella che viviamo ora. Stiamo, dunque, pagando l’infelicità degli americani. E anche un po’ la nostra.

La perdita di valori morali e di solidarietà – testimoniano le statistiche – ha fornito occhiali deformanti agli abitanti delle società opulente, confondendo, nella loro testa, l’obiettivo del ben-essere con quello del ben-avere. Infelici, gli americani hanno cercato di colmare il vuoto interiore riempiendolo di cose. «Il denaro – spiega Bartolini – offre molte forme di protezione, reali e illusorie. Se gli anziani sono soli e malati, la risposta è una badante. Se i nostri bambini sono soli, la soluzione è una baby-sitter. Se la nostra rete di amicizie diviene scarsa e poco attraente o se la nostra città diviene troppo pericolosa per uscire, possiamo passare le serate in casa dopo esserci comprati ogni sorta di divertimento casalingo. Se il clima frenetico e invivibile delle nostre vite e delle nostre città ci angustia, una vacanza in qualche paradiso tropicale ci risolleverà. Se litighiamo con i nostri vicini, le spese per un avvocato ci proteggeranno dalla loro prepotenza. Se abbiamo paura, possiamo difendere i nostri beni con sistemi di allarme. Se siamo soli, o abbiamo relazioni difficili e insoddisfacenti, possiamo cercare un riscatto identitario nel consumo, nel successo, nel lavoro».

Naturalmente, tutte queste soluzioni, così a portata di mano, ci costringono a lavorare di più. E il Pil – quella fantastica bussola che fa andare in brodo di giuggiole i ministri dell’Economia se la freccina punta verso l’alto e imprecare contro il fato se degrada – lievita. Ecco enunciato il paradosso della felicità: quando i legami sociali si sfaldano e noi veniamo colti da mille paranoie, «emerge florida l’economia della solitudine e della paura», spiega Bartolini.

Ma come molte scorciatoie, anche questa – oltre al peggioramento della qualità della vita – conduce a un burrone. Non basta lavorare di più e far crescere il Pil, per riempire il senso di vuoto dei cittadini americani. Occorrono più soldi, che si possono ottenere indebitandosi. E i debiti fanno crescere ancora di più l’economia, almeno quella di carta. Le autorità monetarie stanno a guardare, felici di poter presentare numeri in crescita, Pil baldanzosi come allegre macchine da guerra. Fino al tragico epilogo, quando la bolla scoppia.

E allora si torna da capo. In fondo, questa storia dell’Essere e dell’Avere è vecchia quanto il mondo: i filosofi (e i santi) sostengono che bisogna conoscere se stessi e staccarsi dai beni materiali. Però persino Solone, che spiegò a Creso come il denaro non fosse la fonte della felicità, è citato ancora oggi con il sopracciglio alzato: il solito Solone! E chi ha subito disgrazie o addirittura è morto, viene ricordato come “povero” (indipendentemente dal suo conto in banca).

Avere o Essere? era il titolo di un fortunatissimo saggio di Erich Fromm, lo psicoanalista della Scuola di Francoforte che insieme a Herbert Marcuse, Theodor Adorno e Max Horkheimer ispirò il Sessantotto europeo. Il lato marxista del loro pensiero ha fatto la fine che ha fatto (pare che da almeno dieci anni nessuno consulti le carte d’archivio del “povero” Marcuse), ma tutto il resto, più che soluzioni alla crisi sociale della modernità ha fornito spunti per viaggi in India e la ricerca di un’allucinata serenità New Age.

Dunque, professor Bartolini, siamo semplicemente alle solite: si stava meglio quando si stava peggio? È tutta colpa del capitalismo? E così via con la tiritera dei luoghi comuni? «Non scherziamo. Il paradosso della felicità non autorizza nostalgie ruraliste o il mito del bel tempo che fu. La mia non è una proposta socialista. È una specie di capitalismo dal volto umano. La competizione è un elemento positivo, ma qui si è passato il limite. I neoliberisti ci hanno spiegato che questo doveva essere l’unico sistema di organizzazione della società. Così gli americani hanno sacrificato scuole, pensioni, sanità… e i bambini fin dalla prima elementare si rendono conto di essere cittadini di serie A, B, C o D a seconda dei soldi che i genitori possono destinare alla loro istruzione. La competizione sfrenata, inoltre, genera sprechi pazzeschi. La gente passa il tempo a difendersi dal collega che gli mette le dita negli occhi o gli dà una gomitata nel fegato. Pensi ai suicidi di Télécom France…».

Certo che fondare un sistema economico sul tasso di felicità della gente comune fino a qualche tempo fa sarebbe parso bizzarro. Persino Samuel Beckett, in Aspettando Godot, sostiene che le lacrime del mondo sono una costante, e subito rassicura che lo stesso vale per le risa. «Non trova fantastico – s’llumina Bartolini – che per la prima volta il concetto di felicità venga sottratto a filosofi e poeti e consegnato alla ricerca scientifica?». Sì, se è per affermare che l’economia serve gli esseri umani e non gli esseri umani l’economia. Se non dovremo vivere una vita precaria perché da qualche parte del mondo un cinese accetta umiliazioni in cambio di una ciotola di riso. Se venisse vietata per legge la stupida affermazione: è la globalizzazione, bellezza.

Di più, chiosa Bertolini: «Deve finire la prassi secondo la quale i profitti della finanza sono privati, ma le perdite sono pubbliche. Per molto tempo s’è detto che non c’erano soldi per la ricerca, la scuola, la sanità, ma quando si è trattato di salvare i colossi finanziari è saltata fuori una montagna di denaro. Dunque, è solo questione di priorità. La crisi ha dimostrato che nessun sistema economico funziona bene se basato solo sull’avidità: sono sempre necessarie etica e cooperazione».

Senza dimenticare che la felicità può essere nascosta anche in comportamenti semplici, ancestrali, come spiega un etologo appena tornato dal Botswana: «Le regole sociali del babbuino sono le stesse dei romanzi di Jane Austen: mantenere stretti rapporti con il parentado e cercare di farsi accettare da animali di rango più elevato».

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