La crisi della Germania trascina l’Italia: in fondo c’è la Cina. Una severa analisi di Paolo Bricco sul Sole 24 ore proietta ombre cupe sul nostro futuro.
Ci sono quattro passaggi strategici che hanno determinato il destino industriale della Germania e dell’Europa, esordisce Bricco. Passaggi strategici che contengono, anche, errori. Il primo riguarda la specializzazione produttiva. Il secondo l’egemonia tedesca e la caduta italiana.
Il terzo l’ambiguità del rapporto fra la Germania e la Cina e la inesistenza di un interesse europeo. Il quarto la deriva psico-ideologica delle élite europee ambientaliste – soprattutto tedesche e francesi, ma anche italiane – e la cessione di sovranità tecnologica a Pechino.
Primo punto: l’industria dell’auto europea negli anni Settanta è, in misura equilibrata, tedesca, francese e italiana. Ogni Paese ha più di un produttore. Ogni Paese ha un sistema della componentistica che lavora soprattutto per i produttori nazionali.
Una cosa, però, cambia le carte in tavola: l’industria tedesca inizia a sviluppare potentemente e a proporre sul mercato continentale, trovando il favore dei consumatori, la tecnologia della alimentazione a gasolio.
Tutte le statistiche storiche mostrano, dal 1975, la quota costante di una auto su tre alimentata con il diesel.
Questo non succede né in Nord America né in Asia né in Sud America. Volkswagen, Bmw e Daimler
costruiscono una industria nella industria. Il diesel si diffonde anche in Renault, Peugeot e Fiat.
Il secondo passaggio strategico riguarda la leadership tedesca. Perché, fra gli anni Ottanta e
Novanta, Berlino prende il sopravvento su Roma e Parigi in termini di leadership funzionale.
Le imprese tedesche dell’auto – di cui va sempre ricordata la coerenza con le linee di interesse nazionale, non foss’altro per la presenza negli azionariati dei Laender e per il modello di cogestione fra sindacato e politica, economia esocietà – fanno incetta di tecnologie per l’auto.
Il common rail – inventato a Bari, nel centro di ricerca della Fiat – è ceduto dai manager degli Agnelli, con una dimostrazione di insipienza strategica e di cultura industriale dagli effetti profondi e pervasivi, alla tedesca Bosch, che ne fa uno standard internazionale.
Il common rail, spiega Wikipedia, è un sistema di alimentazione ad iniezione diretta del carburante, utilizzato su motori diesel e benzina.
Inventato dal fisico barese Mario Ricco, fu ideato, sviluppato e pre-industrializzato dal Gruppo Fiat(Magneti Marelli, Centro Ricerche Fiat filiale di Bari ed Elasis) ed industrializzato da Bosch.
Negli anni Novanta si verifica il terzo passaggio strategico, che contiene allo stesso tempo
potenza e debolezza. Nel pieno della globalizzazione, Berlino stringe un patto fortissimo con
Pechino. Nella capitale, nelle aree industriali interne e nelle città della costa cinese, nascono
quartieri prima piccoli e poi sempre più grandi dedicati alle aziende tedesche.
Il modello tedesco che ha determinato l’Europa negli ultimi trent’anni ha tre aspetti: il
rapporto industriale con la Cina, il rapporto energetico con la Russia di gas a basso costo e la
“Bazar Economy”, ossia i cicli manifatturieri spezzettati nel vasto mondo apertosi con la
caduta del Muro e ricomposti dalla visione strategica delle imprese tedesche, che appunto
prendono pezzi-parti-materialità-immaterialità, come fosse appunto un Bazar, nell’Europa dell’est, in Italia, nel Nord Africa.
Le imprese tedesche aprono in Cina società a capitale condiviso con aziende pubbliche controllate dallo Stato. Il vantaggio per la fisiologia manifatturiera tedesca è enorme.
Per anni passano di mano in mano ai dirigenti della Fiat, della Peugeot e della Renault i report su come, grazie alla Cina, le aziende tedesche finanziano le attività in Europa.
L’interesse nazionale tedesco è totale. Non esiste alcuna forma di spalmatura – mentre si introduce la moneta unica – del vantaggio a favore dell’industria europea nel suo insieme. Ogni forma di prosperità, però, può creare forme di dipendenza. Soprattutto quando il socio – cioè la Cina – decide di aumentare la sua posizione gerarchica nella globalizzazione.
E, quindi, punta sull’auto elettrica. E, qui, si arriva al quarto passaggio strategico. La leadership comunitaria – a forte trazione tedesca – accetta la regolazione del mercato dall’auto con ricette ultra-green. Diesel addio. Finanza di impresa sotto pressione. Licenziamenti di massa. E sovranità tecnologica alla Cina.
La opportunità cinese per la Germania si è trasformata in sindrome cinese per tutta l’Europa.
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