Per la nuova diga di Genova, butteranno in mezzo al mare un cassone di cemento alto trentatrè metri, largo trentacinque metri e lungo sessantasette metri, un palazzo di grandi dimensioni, poi un altro, poi un altro ancora……
Li caleranno cinquecento metri al largo della Diga, che centoventi anni fa il marchese Raffaele De Ferrari, principe di Lucedio, un genovese diventato finanziere mondiale, una specie di Rothscild dell’Ottocento, regalò a Genova, cambiandone per sempre il destino.
Sarà il primo atto di un kolossal, che il 4 maggio 2023, con questa cerimonia spettacolare, incomincia nell’ obiettivo di essere concluso entro la fine del 2026: la costruzione di una nuova diga foranea che permetta alla Superba di allungarsi in mare di quei cinquecento metri. E al suo storico porto, nato nel Medioevo, da cui partivano i crociati per liberare la Terra Santa dagli infedeli, da cui partiva la flotta di una potenza marinara dominante nel mondo del Diciassettesimo secolo, di lasciar entrare le supernavi porta container e da crociera, lunghe da trecento a quasi cinquecento metri.
Tre anni per cambiare faccia non solo al primo porto del Mediterraneo e trasformarlo nel concorrente dei grandi scali del Nord Europa e per realizzare la opera numero uno del PNRR italiano, il più grande cantiere dei prossimi decenni.
Si tratta di affondare questa diga in mare aperto, dove i fondali superano i cinquanta metri per una lunghezza di sette chilometri al largo di quella donata dal marchese De Ferrari, davanti a tutto o quasi il water front portuale genovese. Per coprire l’arco di costa, favorendo non solo l’ingresso delle supernavi.
Ma salvaguardando anche i terminal di uno scalo che avrà proiezioni inimmaginabili di traffico, secondo i calcoli della vigilia: almeno sette milioni di container contro i tre a stento, che entrano ed escono oggi dalla vecchia diga, obbligando le navi a pericolose evoluzioni.
Ma non è solo un problema di dimensioni della costruzione, di riempimento del mare. Il grande problema è che la diga cambierà faccia alla città, non solo prolungandola, ma modificando a terra le dimensioni dei terminal stessi, dei moli, delle vie di comunicazioni per far arrivare e far partire i container.
Se si allunga una città di cinquecento metri verso il mare le modificazioni a terra diventano pesanti e invasive. E, infatti, la città già reagisce in un dibattito forte e polemico.
C’è già stata una marcia di cinquemila cittadini a Ponente di Genova, dove i quartieri sono stati nei decenni pesantemente modificati per incrementare gli spazi portuali e industriali.
Tra il 1930 della prima costruzione dell’Acciaieria Italsider-Ilva, gli anni Sessanta della costruzione dell’aeroporto, gli anni Ottanta della costruzione del porto satellite di Voltri-Prà, il mare è stato riempito per chilometri, le spiagge cancellate, l’identità di ex città come Cornigliano, Sestri, Pegli, Prà, Multedo, Voltri completamente stravolta.
Con la contro partita di centinaia di migliaia di posti di lavoro nelle fabbriche e sulle banchine, ma con un prezzo altissimo pagato per l’ambiente e la qualità della vita degli abitanti.
E ora che qualche compensazione urbanistica incominciava in queste zone geneticamente modificate a risarcire i cittadini, le generazioni stremate da decenni di invasioni, arriva la superdiga con il suo corollario di opere subordinate.
Forse un’altra pista di aeroporto, oltre a quella di oggi, parallela alla costa, forse un allungamento del porto satellite di Voltri Prà, sicuramente per il tempo di costruzione, un immane cantiere dove allestire questi cassoni alti, appunto trenta metri, pronti per essere poi trasportati e affondati lungo la linea della nuova diga.
E’ complessivamente una trasformazione enorme che arriva in una città che non ha gli spazi delle capitali marittime del Nord Europa, stretta come è tra quella costa già “divorata” e le montagne alle spalle. Con difficoltà storiche a organizzare i collegamenti tra le attività civili di trasporto e quelle portuali.
Da una parte ci sono, a fianco del committente, il presidente del Porto, Paolo Emilio Signorini, la determinazione del sindaco Marco Bucci , l’uomo che ricostruito il ponte Morandi in 18 mesi, quella delle altre istituzioni liguri e nazionali, il presidente della Regione Toti e il viceministro delle Infrastrutture Edoardo Rixi. Tutti mobilitati per far partire la Diga subito.
E dall’altra ci sono le perplessità, in verità non molto espresse, per una operazione così invasiva, lunga, in qualche modo esplosiva.
Soprattutto se la si lega all’altra opera che sta partendo e che prevede la costruzione di un tunnel subportuale a quattro corsie, che dovrebbe essere realizzato nel fondo del porto storico per collegare l’uscita dell’autostrada a Sampierdarena con la zona del waterfront di Levante, alla foce del fiume Bisagno, dove le ruspe stanno già lavorando da un anno per preparare un nuovo quartiere residenziale-commerciale, al posto della vecchia Fiera del Mare.
Genova cerca, dunque, il suo futuro sul fondo del suo mare, sfruttando quello spazio sommerso per crearsi un destino di accoglienza e di sviluppo, commerciale e civile.
Ma l’impatto sarà per una decina di anni imponente. “Lavoriamo per la Genova del 2050!!!!”, dice il sindaco usando il suo stile altisonante.
Il 4 maggio, mentre i primi cassoni scenderanno nelle acque del Mar Ligure, i protagonisti del kolossal saranno lì, tutti schierati, con in testa il ministro delle Infrastrutture, Matteo Salvini, che ci sguazza, se può inaugurare, annunciare e mostrare i modelli delle nuove opere, dal ponte di Messina in avanti.
I dubbi più forti sulla realizzazione sono già stati esposti e riguardano non solo tempi e costi (appunto tre anni e circa un miliardo di euro), ma proprio la base in fondo al mare sulla quale i cassoni dovrebbero essere posati.
Il professor Piero Silva, notissimo tecnico ingegnere, genovese, che ha lavorato in almeno 42 paesi su progetti di dighe a cassoni, ha più volte sostenuto che la maggiore difficoltà della costruzione riguarda gli almeno dieci-quindici metri di limo sui quali la costruzione dovrebbe essere piazzata.
Il limo è quel materiale che sta in fondo al mare e che non ha una consistenza del tutto solida. Nel caso della nuova diga di Genova si trova a una profondità che renderebbe impossibile l’opera, perché “rinforzare” una tale base, quasi fluida, con sistemi sicuri a 50 metri di profondità, è impossibile, pena il “collasso” della costruzione.
Silva, che si è dimesso dai suoi incarichi nel Rina, la società che dovrebbe controllare tutta l’operazione, segnala anche un altro pericolo, quello che gli 11 milioni di tonnellate di roccia necessari a riempire i cassoni, intorbidirebbero pesantemente le acque del golfo di Genova, compromettendo le attività di pesca e minacciando anche la balneazione. A meno di non “lavare” preventivamente le rocce, operazione non certo facile.
Secondo Silva, più volte intervistato e che è rapidamente diventato il guru anti diga, per realizzare l’opera bisogna riportarla più verso la costa, dove la profondità scende a 30 metri, più che sufficienti al pescaggio delle maxinavi e dove la “presa” dei cassoni è molto più sicura.
Tutte queste obiezioni si sono infrante contro la decisione di andare avanti con il progetto originario, nel frattempo e dopo qualche burrasca nella gara di assegnazione, affidato alla realizzazione del gruppo We Build, ex Salini-Impregilo, alla Fincantieri, a Fincosit e Sidra, riunite in un unico consorzio. Le prime due aziende sono le stesse che hanno ricostruito insieme il ponte Morandi.
Al mondo non esistono dighe foranee che peschino cinquanta metri e che siano costruite praticamente in mezzo al mare. Ciò fa dell’operazione Genova un intervento sul quale sono puntati gli occhi di tutti. E’ una scommessa finanziaria, geotecnica, di proporzioni mai viste nell’era moderna.
Quei primi cassoni che saranno inabissati ai primi di maggio marcheranno, quindi, un passaggio della storia genovese destinato a cambiare probabilmente il futuro trasportistico della città, con navi lunghe il doppio di quelle di oggi, quindi fino a 500 metri e banchine completamente trasformate.
La vecchia diga sarà quasi completamente demolita, salvo 350 metri che rimarranno per esigenze “storiche”, imposte dalla Sopraintendenza ai Monumenti, che non vuole sia completamente distrutta un’opera del 1892.
Il resto servirà ai riempimenti necessari alla nuova barriera per i quali sono attesi anche gli scavi del Terzo Valico, il tunnel di 35 chilometri, che si sta costruendo per realizzare il collegamento ferroviario veloce tra Genova e Milano.
Anche questa opera sarà terminata, dopo infinite attese, nel fatidico 2026 e probabilmente entrerà in esercizio nel 2027, accorciando il tempo di percorrenza di quel tratto a poco meno di un’ora contro l’ora e venti di oggi.
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