Latte lituano, pomodori cinesi, grano ungherese: ma l’etichetta è “Made in Italy”

Latte lituano, pomodori cinesi, grano ungherese: ma con etichetta "Made in Italy" (Corriere della Sera)
Latte lituano, pomodori cinesi, grano ungherese: ma con etichetta “Made in Italy” (Corriere della Sera)

ROMA – Latte lituano, pomodori cinesi, grano ungherese, prosciutto olandese, olio spagnolo: sui banchi del supermercato, nel nostro frigorifero e nella nostra dispensa gli alimenti spesso non parlano italiano.

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La questione è controversa perché da un lato c’è bisogno di maggiori controlli sul “passaporto” del cibo che mangiamo, dall’altro non sembra praticabile – nell’era della globalizzazione – la scelta di arroccarsi sulla linea del Piave del “Made in Italy“, come propongono gli allevatori della Coldiretti in protesta.

La situazione: nei nostri supermercati, in barba al Parma, al San Daniele, due prosciutti su tre non sono italiani. Negli pastifici sono ammassati 5,7 miliardi di chili di grano ungherese e canadese. Spesso, dalle etichette, è difficile capire la provenienza degli alimenti.

Scrive Giuseppe Sarcina sul Corriere della Sera:

“Mercoledì 4 dicembre gli attivisti della Coldiretti hanno sospeso per qualche ora la libera circolazione delle merci, uno dei principi fondanti dell’Unione europea. Dalle celle frigorifere dei camion hanno scaricato e poi issato come trofei cosce di maiale apparentemente insignificanti. Se non fosse per il timbro stampigliato sulla cotenna: Belgio, Francia, Olanda, Germania.
Ecco il teorema dell’organizzazione degli agricoltori: l’industria di trasformazione importa materia prima per confezionare prodotti che poi spaccia come «made in Italy» ingannando il consumatore e bruciando posti di lavoro nei campi e negli allevamenti nazionali. Nel 2012, secondo i calcoli di Coldiretti, sono state importate 57 milioni di cosce di suino, a fronte di una produzione nazionale di 24,5 milioni. In sostanza due prosciutti su tre provengono da terre lontane. «Ma sono tutti lavorati negli stabilimenti italiani», replica Luisa Ferrarini, presidente di Assica, associazione industriali delle carni e dei salumi, affiliata a Confindustria.

Sia Coldiretti che Assica dicono due cose vere. Ma il punto è che sono verità che non si parlano fra loro. I produttori sostengono che i consumatori sceglierebbero con maggiore consapevolezza se conoscessero la provenienza delle materie prime. Comprerebbero prodotti più costosi? Manca la controprova. In realtà la gran parte dei cittadini-consumatori si comporta in modo contraddittorio. Nei sondaggi mostra di apprezzare «il made in Italy», ma quando si trova davanti agli scaffali guarda il cartellino del prezzo e lì si ferma. Il prosciutto cotto costa dai 9 ai 40 euro al chilo. Una forbice che sembra incredibile. Luisa Ferrarini non ha difficoltà ad ammettere: «L’industria offre una gamma enorme di prodotti. Nel Sud di Italia, per esempio, è richiesto un tipo di prosciutto molto magro ma con un prezzo che non può superare i 12 euro al chilo. Come pensate che si possa produrre un prosciutto del genere, se non importando la materia prima?»

Le aziende di trasformazione, dunque, si difendono con questi argomenti: è vero, importiamo un 30% in media di materie prime, ma siamo sempre noi a controllare il processo di lavorazione; siamo noi che garantiamo la qualità e la sicurezza degli alimenti. Non siamo dei contraffattori.

Ma c’è qualcosa che stona. Prendiamo pasta e pomodoro: il dna culturale, prima ancora che gastronomico, del nostro Paese. Eppure gli stabilimenti italiani, fa osservare ancora la Coldiretti ammassano ogni anno 5,7 miliardi di chili di grano provenienti da Francia, Ungheria, Austria, Germania e Canada. E, nota ancora con perfidia, l’industria di trasformazione importa 72 milioni di chili di salsa in concentrato dalla Cina: l’equivalente di quasi il 20% della produzione italiana di pomodoro fresco. Si può discutere a lungo sul modello di agricoltura prevalente in Italia. Il fronte industriale ha buon gioco a sottolineare l’incapacità strutturale di un sistema frazionato come il nostro a coprire il fabbisogno di cereali (ne importiamo quasi il 45%).

[…] Dovrebbe essere, dunque, obbligatorio indicare l’origine di tutti gli ingredienti sull’etichetta? È una domanda che divide l’Unione europea. Al «sì» dell’Italia si oppone il «no» di Germania, Olanda, Gran Bretagna, Paesi in cui è forte l’influenza delle multinazionali e delle catene della grande distribuzione. Da quelle parti conta solo il prezzo e deve essere il più basso possibile. Al resto penseranno le arti della pubblicità e del marketing. Spesso fuorvianti: basti solo pensare alle mozzarelle o agli yogurt con nomi italiani confezionati con latte lituano o polacco”.

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