Il lavoro nero può comportare sanzioni anche per il dipendente. E, per la Cassazione, i compensi irregolari vanno sempre dichiarati.
Il lavoratore in nero è una vittima da difendere e risarcire o un corresponsabile da punire con la massima severità? Per legge, oltre a non poter accumulare contributi utili per la pensione, a non essere tutelato con l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e a non poter godere di tutti gli altri benefici previsti per i lavoratori regolari, il dipendente assunto a nero può essere anche colpito da pesanti sanzioni amministrative.
Le norme in vigore, stabilite dal Decreto Legislativo n. 151 del 2015 e dal Decreto Legge n. 146 del 2021, non escludono a priori la responsabilità civile del dipendente nella fattispecie del reato di lavoro nero. Più di recente, con il Decreto PNRR 2024, sono state introdotte delle nuove regole che prevedono delle maxi sanzioni per arginare il fenomeno del lavoro irregolare e nero. E anche in questo caso la normativa interpreta doppiamente il ruolo del dipendente.
La legge italiana tenta in qualche modo di bilanciare la necessità di proteggere i diritti dei lavoratori con il dovere di contrastare l’evasione fiscale e il lavoro irregolare. In questo senso, il lavoratore che presta la propria attività in nero può essere considerato sia una vittima che un soggetto passibile di sanzioni.
Suona strano, ma è proprio così che funziona. Anche perché, a livello legale, non è possibile escludere l’eventualità che lo stesso dipendente possa trarre massimo vantaggio dal rapporto di lavoro irregolare. Percependo un reddito non dichiarato, il lavoratore evade le imposte. Per tale ragione può sempre essere soggetto a recupero fiscale delle somme non versate allo Stato.
Le sanzioni variano in base alla durata del periodo di lavoro non a norma. Per attività di lavoro in nero fino a un mese, la sanzione prevista può andare da un minimo di 1.800 euro a un massimo di 10.800 euro. Per rapporti di lavoro irregolare duranti fini a due mesi, la multa va da un minimo di 3.600 euro a un massimo di 21.600 euro. Oltre i tre mesi, la sanzione minima è di 7.200 euro, ma può arrivare anche a 43.200 euro.
Gravi penalizzazioni intervengono allorquando il lavoratore in nero froda lo Stato, per esempio accedendo a benefici dedicati ai disoccupati. È il caso di chi, pur lavorando, percepisce una prestazione a sostegno del reddito, come la NASpI oppure l’assegno di inclusione.
In questi casi specifici, oltre alla revoca della prestazione assistenziale, il lavoratore potrebbe essere costretto a resistere tutti gli assegni percepiti indebitamente. Inoltre possono anche arrivare delle conseguenze penali visto che, per legge, la fattispecie risponde al reato di truffa.
Inoltre, la Cassazione, con la sentenza n. 9867 del 5 maggio 2011, ha stabilito che il contribuente deve sempre dichiarare al fisco i compensi ricevuti, anche se percepiti in nero e quindi non dichiarati ufficialmente. Questi compensi devono essere inclusi nella base imponibile per il calcolo delle imposte. Anche se il datore di lavoro non ha vera le ritenute d’acconto, il lavoratore è comunque obbligato a pagare le imposte sui redditi ricevuti.
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