Licenziare: sì o no? E poi? Ecco come funziona nel resto d’Europa

Pubblicato il 31 Ottobre 2011 - 09:50 OLTRE 6 MESI FA

ROMA – Licenziare con più “facilità” oppure no? In Italia il dilemma è questo. Nel resto del mondo, invece, la situazione sembra diversa: il punto, infatti, non è tanto la flessibilità quanto, piuttosto, il dopo. Con sfumature che variano da stato a stato, infatti, il licenziamento fa più o meno parte della “normale” dialettica del lavoro. Perdere il posto, però, significa entrare in una fase più o meno lunga di sussidio.

Il modello più efficiente, almeno sulla carta sembra quello della Danimarca dove la cosiddetta “flexsecurity”, la flessibilità sicura è applicata a pieno. Significa, fondamentalmente, che chi lavora può essere licenziato con l’eccezione di discriminazioni sessuali o razziali. Se perde il posto, però, ha diritto per quattro anni (ora si pensa di ridurli a due) ad una busta paga tra il 70 e il 90% dell’ultima busta paga.  Qualcosa di analogo accade anche in Svezia. Un particolare fondamentale: il sussidio vale anche per i precari e, in quest’ultimo caso, è interamente pagato dallo Stato. Sia chiaro in Svezia e Danimarca le tasse sono alte (46 e 48%). In Italia, però, sono quasi altrettanto altre ma senza lo straccio di un sussidio.

In Germania, invece, fermo restando il diritto del lavoratore di impugnare il licenziamento senza giusta causa è comunque previsto un sussidio di disoccupazione tra i 12 e i 18 mesi. E’ in ogni caso dovere del datore di lavoro consegnare a fine rapporto un attestato che, sulla carta, dovrebbe facilitare la ricollocazione del lavoratore in uscita. Infine il licenziamento, almeno nelle grandi aziende, è sempre negoziato con i sindacati tenendo conto della situazione anagrafica e familiare del lavoratore. Si tende, insomma, a tutelare chi per l’età farebbe più fatica a reniserirsi o chi ha un nucleo familiare numeroso.

In Francia, dove si può licenziare per ragioni economiche o personali, Parigi spende in sussidi il 28,4% del Pil. Non solo: parte del processo di riqualificazione e riconversione dei lavoratori è a carico delle aziende (si parla di realtà produttive con oltre 50 dipendenti) che li mettono in uscita. In Gran Bretagna, invece, la flessibilità è massima da sempre. Rari i casi di reintegro sul posto di lavoro mentre le vertenze si chiudono spesso in tribunale dove il lavoratore può ottenere un risarcimento fino a 68 mila sterline. Le spese legali sono in ogni caso a carico dell’azienda.

Nella Spagna della crisi si va invece verso misure penalizzanti per il lavoratore. Zapatero ha infatti previsto di allargare la giusta causa alle grandi aziende con perdite “permanenti, temporanee o congiunturali”. La norma, ovviamente non è piaciuta quasi a nessuno visto che la Spagna i disoccupati sono il 20% e i giovani disoccupati il 45%. Infine un salto dall’altra parte del mondo. In Giappone si licenzia abbastanza liberamente. Là, però, dopo la crisi i disoccupati sono il 4,1%.