ROMA – “Primo, licenziare tutti i manager”: lo sostiene un professore della London Business School in un articolo ospitato dalla rivista Harvard Business Review, come dire culla e incubatrice della formazione manageriale. Gary Hamel, analizzando la sostenibilità dei costi gestionali di un’impresa arriva a concludere che “il management è l’attività meno efficiente della tua organizzazione”. Lungi dal favorire maggiore produttività ed efficienza, l’attività manageriale serve a scongiurare il collasso dell’impresa sotto il peso della sua complessità. Complessità creata dalla superfetazione di manager.
L’articolo, ripreso da Stefano Feltri sul Fatto Quotidiano, offre una sponda intellettuale alle proteste di Occupy Wall Street. A Zuccotti Park, chi rivendica di essere il 99% della popolazione sa già che la ridondante gerarchia manageriale è sinonimo di pericolo incombente. Hamel concorda: “Aumenta il ventaglio di grandi e disastrose decisioni che si possono prendere”. Dismisura, miopia, improvvisazione possono condurre a decisioni sbagliate chiunque a qualsiasi livello, ma “dai il potere a un monarca assoluto e prima o poi manderà regalmente tutto a puttane”, testuale.
Il professor Hamel porta come esempio virtuoso di liberazione dai manager il caso della Morning Star, un’azienda di pomodori americana leader del settore che ne fa a meno. Ogni reparto si gestisce da solo, i lavoratori stessi organizzano i cicli di produzione e gli stipendi variano sulla base dei risultati ottenuti. Il sistema funziona: Morning Star ha fatturato nel 2010 700 milioni di dollari. L’idea è suggestiva e come provocazione è salutare. Il “self management” però, non può, ragionevolmente, essere applicato su larga scala. Tuttavia può certamente funzionare da pungolo per aprire una riflessione più ampia sul ruolo, sui compensi dei manager e sulla stessa filosofia che attribuisce loro un’importanza spesso ingiustificata quando non usurpata. Di autogestione se ne parla da anni, risultati come quello della Morning Star se ne contano pochissimi, molti di più gli insuccessi e i fallimenti. E’ vero, però, che i manager sono troppi, i livelli sono pletorici e la burocrazia paralizza le decisioni. Per non parlare delle pesantissime buste paga dei manager tra stipendi, premi, bonus.
A questo proposito, sempre sul Fatto, Vittorio Malagutti presenta una galleria di volti di manager “osannati e spesso coperti d’oro che alla prova della recessione non si sono dimostrati all’altezza della situazione”. Tra i “capitani di sventura” riconosciamo i protagonisti dell’italian business 2011, l’anno dei flop. Apre la galleria Fausto Marchionni, l’uomo del tracollo di Fondiaria-Sai, compagnia dove ha imperversato la famiglia Ligresti: alla fine ha dato le dimissioni con il premio di una liquidazione multimilionaria. Segue Massimo Ponzellini che ha lasciato la Banca Popolare di Milano nel caos: lui è finito indagato, il prezzo delle azioni è crollato.
Sergio Marchionne è il volto più illustre e controverso: il “salvatore dell’auto” non ha impedito che il marchio Fiat in due anni perdesse il 30% della sua quota di mercato in Europa, a dispetto delle copertine di Time. Giuseppe Mussari è contemporaneamente a capo del Monte dei Paschi di Siena e presidente dell’Abi (associazione di categoria delle banche italiane): su entrambi i fronti le cose vanno tutt’altro che a gonfie vele, con Siena a un passo dal perdere il controllo della banca dopo cinque secoli. Last but not the least Alessandro Profumo: costretto a lasciare la guida di Unicredit alla fine del 2010, un anno dopo si è scoperto un buco di 9 miliardi. In compenso se ne è andato con una buonauscita di 40 milioni di euro.