ROMA – Le timide ma significative aperture di Angela Merkel su una maggiore integrazione bancaria europea rappresentano un primo segnale di risveglio continentale. Qualcosa inizia a muoversi anche se ancora ieri da Washington arrivavano espliciti inviti a fare di più perché i mercati davvero non credono “che le misure prese sinora siano sufficienti per garantire una ripresa in Europa e per rimuovere il rischio che la crisi si aggravi”. Al critico Obama qualcuno ha replicato con stizza (lo ha fatto il ministro degli esteri francese Fabius) ricordando che la crisi non è nata in Europa, “Lehmann Brothers non era una banca francese o italiana”. Rimpallo di responsabilità a parte, tutti gli analisti concordano sul fatto che la fragilità sistemica del settore bancario europeo è più vecchia della crisi fiscale greca. Fu rivelata dallo shock causato dai mutui subprime e da Lehman Brothers nel periodo 2007-2008, e non è la si è mai affrontata in maniera adeguata, nonostante i successivi e ripetuti stress test.
Quello che intende Merkel è chiaro: per gli eurobond se ne riparla tra parecchi anni, il controllo sulle banche, invece, può e deve essere europeo. E non Bruxelles ma Berlino, al massimo Francoforte. D’altra parte la soluzione, difficile e non immediata, è caldeggiata anche dalla Bce, dal Fmi, fortemente dalla Commissione Europea. Un’unione bancaria europea dotata di risorse proprie, finanziata con le entrate tributarie, per ricapitalizzare e supervisionare le banche in maniera centralizzata. La supervigilanza cui si guarda dovrà essere molto più efficace e dotata di poteri diversi rispetto all’anemica Autorità Bancaria Europea creata lo scorso anno. Un’authority senza peso e possibilità di interdizione. Altrimenti in Spagna non saremmo arrivati al punto in cui siamo.
Madrid avrebbe potuto fare appello al Fondo Europeo di Stabilità Finanziaria (EFSF) per un prestito appositamente destinato a ricapitalizzare le sue banche, ma ha preferito fare da sola attraverso la nazionalizzazione di Bankia e un nuovo giro di svalutazioni immobiliari che ha suscitato un grande scetticismo del mercato. La necessità di un’unione bancaria è impellente: senza, non esiste una politica monetaria comune. Serve una struttura federale pr la politica bancaria. Lo ripetono da tempo Christine Lagarde e Mario Draghi. Lagarde, Fmiil 17 aprile ha dichiarato: “Per rompere il circuito di continua retroazione fra gli stati e le banche, abbiamo bisogno di una maggiore condivisione dei rischi oltre i confini nazionali all’interno del sistema bancario . Nel breve termine, sarebbe di grande aiuto una struttura europea che abbia la capacità di acquisire partecipazioni dirette nelle banche. Guardando al futuro, l’unione monetaria ha bisogno di essere sostenuta da una maggiore integrazione finanziaria, che, secondo la nostra analisi, dovrebbe assumere la forma di un controllo unificato, una singola autorità di risoluzione nel settore bancario con una protezione comune e un unico fondo di assicurazione per i depositi “.
In primo luogo le banche dovranno condividere i rischi: non è ragionevole che i governi europei continuino a rimborsare tutti i creditori o le banche fallite. In America, a parte qualche pochi clamorosi casi (Bear Stearns, Fannie Mae, Freddie Mac, AIG e le case automobilistiche), nei casi di ristrutturazione dei debiti i creditori hanno dovuto digerire pesanti perdite. In secondo luogo la ristrutturazione delle banche europee ha bisogno di altri criteri, più stringenti, un obiettivo perseguibile da una task force dedicata che riesca laddove le autorità nazionali hanno fallito.
Terza e forse più urgente necessità è una forma di sicurezza che scongiuri la corsa agli sportelli bancari e la fuga dei capitali dai paesi a rischio default: una “riassicurazione dei depositi” rafforzerebbe l’integrità dell’area e accrescere subito la fiducia nelle sue banche. Ovvio che un sistema efficace di vigilanza scoraggerebbe comportamenti di “moral hazard”, quando cioè gli istituti di crediti rischiano contando sul fatto che poi ci pensa lo Stato a ripianare le perdite o a evitare i fallimenti. E’ un atteggiamento tipico degli istituti troppo grandi per fallire (too big too fail) se non a costo di un fallimento sistemico ingestibile. La dimensione delle banche è un altra questione ancora.