Moda low cost, il vero prezzo del fast fashion

(Foto Ansa)

MILANO – Dopo il fast food rinnegato con lo slow food anche il fast fashion avrà i giorni contati? Mentre il cambiamento climatico si mostra nella sua forza, con i ghiacciai dalla Groenlandia alla Marmolada che si liquefanno al sole del luglio più caldo di sempre, e le diete più in voga sono quelle che inquinano meno, qualcuno si interroga sui costi economici e ambientali della moda low cost. Parliamo di marchi come H&M e Zara, tanto per capirci, che permettono di indossare modelli visti poche settimane prima sulle passerelle a prezzi a dir poco modici. 

Un’inchiesta della Bbc sottolinea come i britannici si aggiudichino il triste primato di maggiori acquirenti di vestiario: le vetrine sono piene di abiti a meno di dieci sterline e persino di costumi da bagno ad una sterlina sola. Chi si può stupire se gli acquisti siano frenetici? Ma il trend non riguarda certo solo il Regno Unito. 

Lo shopping è inversamente proporzionale al costo dei vestiti. Ma questa moda usa e getta ha dei rischi. Rischi che sembrava fossero diventati evidenti con una delle più grandi tragedie della storia moderna: il crollo del Rana Plaza di Dacca, Bangladesh, il 24 aprile del 2013, costato la vita a 1.200 persone, quasi tutti lavoratori nelle fabbriche che producono gli abiti di marchi tanto amati nel cosiddetto Occidente. 

Dopo quella strage, seguita da manifestazioni e proteste, sono state prese delle misure in Bangladesh. Ma chi ancora non ha voluto sentire le ragioni dei morti ha delocalizzato nuovamente in Paesi come l‘Etiopia, dove, sottolinea la Bbc, paghe settimanali da 7 dollari sono la norma, le donne prima di essere assunte – se di assunzioni si può parlare – vengono tastate sulla pancia perché il datore di lavoro vuol essere certo che non siano incinte. E, nel fortunato caso in cui vengano prese, subiscono abusi verbali (e probabilmente non solo) a non finire.

Questi sono i costi economici della moda “veloce”. Ma ci sono anche costi ambientali. C’è chi si vanta di acquistare solo fibre naturali, eppure anche queste consumano acqua in quantità enormi: secondo quanto stimato dalla Commissione di controllo ambientale della Camera dei Comuni britannica, una maglietta e un paio di jeans, tutto in cotone, possono richiedere il consumo di 20mila litri d’acqua per essere prodotti. Gli abiti in poliestere realizzati dalla plastica vergine emettono grandi quantità di anidride carbonica, le tinture inquinano, i lavaggi in lavatrice rilasciano microplafibre di plastica.

Senza arrivare agli estremi di chi, come Stella McCartney, invita a non lavare i vestiti per non inquinare, una eco-attivista glamour come Livia Firth (l’italiana moglie dell’attore Colin Firth) si batte per una moda sostenibile e punta il dito contro gli influencer, che spesso ammettono di non riutilizzare più abiti che hanno già postato sui propri social. “Se Kim Kardashian promuovesse la moda sostenibile io potrei finalmente andare in pensione”. Ma forse basterebbe semplicemente che guardando il cartellino del prezzo ci si ricordasse che quello è solo l’ultimo e minimo dei costi della moda.

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