ROMA – Modello tedesco. Contratti flessibili e welfare: chi rifiuta il posto no sussidi. Si fa un gran parlare del modello di lavoro tedesco (e del welfare che sussidia chi non ce l’ha) da seguire come esempio virtuoso anche in Italia. Per la buona ragione che negli anni della crisi (2007-2013) la Germania ha quasi dimezzato il numero di disoccupati (dal l’8,7% al 4,9) mentre l’Italia lo raddoppiava (dal 6,1% al 12,2). Lo ha citato Matteo Renzi quale fonte di ispirazione. Ne discute anche il Messaggero per capire come funziona e verificarne appunto l’esportabilità.
Il successo tedesco va attribuito alla scelta dell’ex cancelliere socialdemocratico Schroeder di affidare nel 2003 la riforma del lavoro all’ex consigliere di amministrazione Volkswagen Peter Hartz. La ricetta: flessibilità contrattuale in entrata e in uscita, ammortizzatori sociali universali ma concepito non solo come sostegno economico ma anche come accompagnamento attivo al reinserimento lavorativo. Quindi scuola, corsi di formazione, aggiornamento continuo.
Un pezzetto alla volta – passo dopo passo, direbbe Renzi – ha costruito un puzzle in cui la flessibilità delle forme contrattuali sia in entrata che in uscita, si sposa con un sistema di ammortizzatori sociali che dà una mano al disoccupato non solo dal punto di vista economico, ma anche da quello della ricerca di un nuovo posto. Fanno parte del puzzle anche un dialogo sociale aperto, che prevede la partecipazione dei dipendenti alle scelte strategiche dell’azienda. E una valida alternanza scuola-lavoro. In sostanza si tratta di un sistema a tutto tondo, con tanti piccoli tasselli legati tra di loro da un filo indissolubile.
Per questo motivo molti studiosi del «modello tedesco» avvertono: non si può fare come al supermercato, dove ognuno sceglie dallo scaffale il prodotto che più gradisce; affinché funzioni deve essere preso tutto insieme. È possibile per l’Italia? Difficile. Basti pensare al sistema degli ammortizzatori: in Germania è davvero universale, il sostegno economico viene dato sia a chi perde il lavoro sia a chi semplicemente non lo trova.
Nel primo caso c’è l’indennità di disoccupazione vera e propria che dura in media 12 mesi (60% dell’ultimo salario netto, 67% in presenza di figli a carico), nel secondo c’è un sussidio simile al salario di cittadinanza denominato ”sicurezza sociale di base“ che varia da 251 a 374 euro mensili ai quali si aggiungono aiuti economici per affitto, studio, riscaldamento, spesa alimentare. Un sistema costoso, che si regge sul fatto che lì i centri per l’impiego funzionano (c’è un’agenzia nazionale con molti più addetti e con molte più risorse rispetto a quanto spende l’Italia per le politiche attive).
Si fonda anche sul cosiddetto ”principio di condizionalità“: chi riceve il sussidio deve seguire corsi di formazione e non può rifiutare l’offerta di lavoro. Nemmeno quelli socialmente utili, pagati appena 1 euro l’ora. Se rifiuta rischia di perdere una parte o addirittura l’intero sussidio. Il principio in teoria esiste anche da noi già da tempo, ma è inapplicato. Se ne parla anche nella delega chiesta dal governo Renzi, vedremo i decreti delegati.
E poi la flessibilità contrattuale. Con i Minijob (piccoli lavori precari, sottopagati e senza contributi) la Germania riesce a impiegare circa cinque milioni di persone. Ma anche lì non sono poche le critiche di chi denuncia salari orari da fame, a volte perfino inferiori ai 2 euro l’ora. (Gi. Fr., Il Messaggero)
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