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Debito ossessione sovrana: welfare nazionale, tagli globali

di Warsamé Dini Casali |14 Luglio 2011 23:12

Lloyd Blankfein

WASHINGTON – Provate a immaginare Gianni Alemanno che si incatena davanti a Palazzo Chigi per protestare contro i dolorosi tagli alla spesa pubblica del “suo” Presidente del Consiglio. La stessa impressionante scena si è svolta davvero, ma a Washington, non a Roma: hanno fatto il giro del mondo le immagini del sindaco Vincent Gray portato via in manette davanti al Congresso. Il liberal Gray contestava la politica di rigore del presidente Obama, impegnato in una gigantesca manovra di contenimento della spesa pubblica che si annuncia epocale. Per l’anno in corso è previsto un “rosso” da far tremare i polsi, il più alto registrato dai tempi della Seconda Guerra mondiale. Con l’ulteriore smacco per i democratici che devono forzatamente concordare ogni passo di questa colossale manovra in accordo con i Repubblicani che controllano il Congresso e decisi a usare le forbici con ancora più grinta.

Tuttavia, la querelle sul budget investe tutto il mondo occidentale, uscito ammaccato dalla doppia sbornia liberista e welfarista e diviso sulle soluzioni da adottare. L’impaccio maggiore riguarda la scelta di stringere la corda senza impiccare il paziente e l’impossibilità di utilizzare la leva fiscale, innalzando le tasse, con il rischio di stroncare sul nascere anche i primi timidi segnali di crescita. Rigore e crescita, dunque, crescita e rigore, non si scappa. E la drammatica alternativa cui è sottoposto il governo americano è solo la più ingombrante in termini mondiali. E’ la stessa, per esempio, che il governo conservatore inglese ha provato ad affrontare ormai già da un anno: in anticipo sugli altri, la scelta britannica costituisce un involontario stress test di confronto. Per non parlare dell’Europa continentale, a un estremo inferiore Grecia, Spagna e Portogallo, all’estremo superiore brillante e virtuoso la Germania, sempre ossessionata dalle memorie di un passato vecchio di meno di un secolo, che vide uscire, dall’inflazione galoppante e dalla recessione, il nazismo. In mezzo, verso il basso ma ancora a galla, sta l’Italia.

Viviamo in questi mesi il colossale paradosso che le stesse banche americane che in passato aiutarono la formazione di debiti statali spropositati, poi aiutarono (vedi Grecia e C., Italia in testa) a metterli sotto il tappeto e favorirono bolle di ogni tipo portando il mondo sull’orlo del collasso, ora hanno imboccato la strada del rigore con una spietatezza che ricorda l’esattore olandese del film Charactere. Forse hanno la neppur tanto segreta speranza che i governi europei del ventre molle, dalla Grecia al Portogallo, sempre Italia inclusa, per pareggiare i loro debiti si mettano a fare pesanti privatizzazioni, del genere che l’Italia ha già subito negli anni ’90, col solo risultato di favorire pochi eletti, tra cui le banche americane, facendo pagare il conto ai poveri consumatori, cioè a tutti noi.

Vale la pena ricordare che la Grecia ha ormai un debito complessivo di 340 miliardi di euro. Per scongiurare l’eventualità che come l’Argentina dieci anni fa si dichiari insolvente restano solo tre opzioni: l’allungamento delle scadenze (cioè procrastinare il problema), il default parziale (Atene potrebbe decidere unilateralmente di rimborsare solo una parte del debito alla scadenza) oppure il buy-back, in pratica la Grecia si farebbe prestare dall’Europa i soldi per ricomprare sul mercato una parte del suo debito. Comunque tutte le opzioni implicano una scommessa sul futuro affidata al responso dei mercati, che finora è molto negativo. Al contrario dell’Italia, per esempio, la cui situazione debitoria è solo un filo meno compromessa della Grecia, ma spaventa meno i mercati. Nella valutazione delle agenzie di rating la tendenza conta più dei numeri assoluti, perché si tratta di delineare il futuro probabile e non di fotografare il presente. Il debito italiano è molto pesante (il 119% del prodotto interno lordo del Paese), ma dall’inizio della crisi è cresciuto poco (nel 2007 era al 103,6). Quello americano, invece, è quasi raddoppiato, passando dal 55 al 99% del Pil. I mercati si fidano meno di chi aumenta molto rapidamente il suo debito che di chi convive con un grosso debito da molti anni e ha sempre dimostrato di essere in grado di rimborsarlo senza difficoltà.

Un fatto, quest’ultimo, che dovrebbe essere maggiormente compreso a Berlino, dove le voci insistenti sulla ristrutturazione del debito greco, che sistematicamente escono dall’entourage del governo, alimentano solo la speculazione su chi scommette sul suo default. E’ il paradosso tedesco: la pretesa cioè di esigere alti tassi di interesse sui crediti europei e contemporaneamente imporre un’austerità che spingendo i debitori verso la recessione, rende più difficile rimborsare quei crediti.

Nei fatti appare chiaro che il destino del mondo è governato da un grande burattinaio che siede sulla cima dei grattacieli alla punta di Manhattan, a Wall Street, dove hanno sede le principali banche mondiali. Una cupola che fa il bene il male di tutti noi e solo il bene dei suoi azionisti e dei suoi manager.

Trasferito tutto questo nella realtà dei singoli paesi, il cinismo e la spietatezza delle banche, cui il capo di Golman Sachs, Lloyd Blankfein presta un ghigno molto più credibile di Michael Douglas, sono filtrati dalle regole della politica. Come per le banche il bene supremo sono i profitti, per i politici il bene supremo è costituito dalla ricerca dei voti, non disgiunta da una certa coerenza ideologica.

Così, guardando i comportamenti di ciascun governo, si notano differenze anche importanti di comportamento, ma una unica catena li tiene tutti uniti, sulle cui maglie è scritto tagli e rigore.

L’approccio del Cancelliere George Osborne è lineare: in periodi di alto disavanzo e debolezza economica, il primo passo è aggredire subito il debito con rapidi e profondi tagli al cuore del welfare. Solo così si guadagna la fiducia dei mercati assicurando bassi tassi di interesse necessari a una crescita di lungo periodo. Peccato che i primi riscontri siano inferiori alle aspettative: le vendite al dettaglio di marzo sono cadute a picco e un rapporto del Center for Economic and Business Research prevede che le entrate delle famiglie scenderanno del 2% quest’anno, procurando un altro anno disastroso per le entrate inglesi. Insomma la cura da cavallo per ora non funziona.

In America, interessata all’esperimento inglese, l’approccio non può che essere modulato in maniera differente: seguire le linee guida anche del più conservatore dei governi europei è considerato un pericoloso scivolamento di tipo socialista. Cittadini e governi locali del Regno Unito soffrono sulla loro pelle la riduzione dei servizi come il taglio all’assistenza degli anziani, ai programmi di supporto alle politiche giovanili o alla raccolta rifiuti. Ma icone come il servizio sanitario nazionale non sono state toccate. I repubblicani americani hanno invece messo nel mirino proprio i programmi sanitari tipo Medicare, rivedendo drasticamente le riforme di Obama. In America una tassazione come quella  inglese al 50% per i redditi dei ricchi, è un’idea semplicemente marziana. Tuttavia, il più grosso dei problemi inglesi, nonostante una sforbiciata di 300 mila impiegati pubblici fino al 2014, è l’incubo della recessione.

Se in Europa il giudice ultimo sulla bontà delle politiche di risanamento dei debiti sovrani è rappresentato dal mercato dei titoli, in Usa, grazie anche agli acquisti cinesi, la domanda globale dei titoli del tesoro americano e i corrispettivi bassi tassi di interesse avevano ridotto la pressione sul governo a far presto per diminuire l’astronomico debito di quasi 15 mila miliardi cui l’avevano portato i dissennati tagli alle tasse diGeorge Bush figlio, tra l’altro a principale beneficio dei super ricchi che oggi strizzano l’America e il resto del mondo per la gola. La decisione di Standard & Poor che minaccia di abbassare il rating sul debito sovrano Usa accelera questa pressione a far presto. L’agenzia di rating ha voluto sottolineare come il rischio di bancarotta è legato all’outlook, giudicato negativo invece che stabile, ovvero scommette su aspettative fosche di crescita che minano la sicurezza sulla solvibilità dei titoli.

Il rischio di un nuovo crollo dell’economia mondiale appare in questo momento legato alla paralisi dei governi: in questo caso, non è la finanza sotto accusa, ma la politica. L’intervento di Standard & Poor (un errato giudizio politico secondo la Casa Bianca) spinge l’amministrazione a decidersi a trovare un accordo coi repubblicani definitivo. O le lacrime e sangue con tagli in dieci anni da 6 mila miliardi, con il quale i repubblicani smantellerebbero sanità e sistema pensionistico. O il piano Obama, con tagli più digeribili, programmati fino al 2012 per 4 mila miliardi complessivi e con la promessa di recuperare qualcosa dal ripristino delle tasse ai super-ricchi eliminate da Bush. Oppure un accordo.

Già l’accordo. Il ministro del Tesoro Tim Geithner avverte che l’attuale tetto del debito – fissato per legge a 14,3 trilioni di dollari – sarà raggiunto il 16 maggio e senza un’intesa per elevarlo dovrà ricorrere a “soluzioni contabili” per scongiurare l’insolvenza “per almeno due mesi” mentre sul fronte opposto i repubblicani di Jon Boehner rispondono che “vogliamo evitare il default, sappiamo è una questione seria e siamo pronti ad elevare il tetto del debito per fare fronte agli impegni internazionali già assunti ma non daremo carta bianca al presidente senza ottenere importanti riduzioni del deficit e del debito”. Tantopiù che Obama di aumenti di tetto del debito ne ha già chiesti e ottenuti 3 in altrettanti anni. In concreto ciò significa che nei prossimi 30 giorni il presidente della Camera Boehner, e il suo braccio destro Paul Ryan, capo della commissione Bilancio, chiederanno a Geithner di rimettere mano al piano di Obama chiedendo di salvare gli sgravi fiscali di Bush, evitare i tagli militari ed accettare dei pesanti compromessi anche sulla Sanità.

La palla passa ora a Obama: è lui che deve convincere la base sulla ineluttibilità di certi dolorosi tagli. Dovrà spiegare lo stop ai fondi per gli aborti delle donne povere negli ospedali di Washington, affrontare lo sconforto dei ceti meno abbienti che in gran parte sono composti da afroamericani, dovrà confutare Cornel West, docente di Princeton e popolare voce della comunità nera, che gli imputa di essere “prigioniero di un team della Casa Bianca a cui non interessano poveri e minoranze”. Dovrà trovare le parole per convincere il Paese tutto. Le stesse ispirate parole che convincano i prossimi Vincent Gray a non incatenarsi davanti al Congresso.

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