Anche gli operai cinesi vogliono un posto a tavola e la Cina aumenta i salari per ridurre le tensioni sociali.

C’è qualcuno che in questo momento di crisi mondiale aumenta i salari. Nessuno cerchi nelle cronache locali dei giornali italiani, quel qualcuno si trova molto ma molto lontano, nell’estremo oriente, per la precisione in Cina. Nonostante gli aumenti salariali in Cina non riguardino l’Italia, la notizia, visti i tempi che corrono, merita comunque qualche riflessione.

All’indomani della riunione del G20 tenutasi a Seoul la Cina ha annunciato aumenti di salario in importanti complessi industriali del paese. La coincidenza è stata interessante. Nella medesima conferenza i principali paesi industrializzati hanno confermato le politiche deflazionistiche che sono state approvate in tutta Europa nelle ultime settimane: contenimento del debito, taglio della spesa corrente, rigore dei conti pubblici.

La Cina va in un’altra direzione. Secondo il Global Times presto il salario minimo nazionale sarà aumentato del 20%, un incremento considerevole rispetto ai passati interventi. Questi annunci mostrano che il governo cinese sta perseguendo una nuova politica. Dopo avere per anni sviluppato un modello di crescita basato sulle esportazioni, oggi il paese asiatico vuole stimolare la domanda interna. Permettere agli operai di consumare più e meglio è il primo, logico, passo in questa direzione.

A dire il vero, la decisione è una scelta solo a metà. Le tensioni sociali in Cina si fanno sempre più acute a causa della rapida, e a volte disarmonica, crescita. Aumentare i salari degli operai è dunque un metodo efficace per arginare gli squilibri. Inoltre, la politica del figlio unico ha portato dei duri colpi alla un tempo leggendaria inesauribilità della forza lavoro cinese. Le fabbriche non hanno più a disposizioni come un tempo masse di uomini e donne disposti ad accettare qualsiasi condizione pur di lavorare.

Da un punto di vista politico, nei prossimi anni il compito del governo cinese sarà dare ai suoi cittadini non solo prodotti ma anche servizi di protezione sociale ad oggi inesistenti. Da un punto di vista economico, la Cina dovrà fare attenzione a non sovraccaricare la domanda interna. Un tale fenomeno, plausibile visto le politiche economiche correnti, porterebbe inevitabilmente ad una spirale inflazionistica.

Una delle misure che potrebbero essere prese in conto per contrastare l’inflazione converrebbe agli Stati Uniti e all’Europa, che già in passato l’hanno richiesta a gran voce: una progressiva e regolare rivalutazione dello yuan. Questa misura ridurrebbe l’inflazione interna alla Cina e dall’altra avrebbe come risultato di permettere ai cinesi di acquistare a prezzi più competitivi le merci provenienti dall’Europa. In un periodo di euro a valori già bassi questo sarebbe una manna per le esportazioni dei paesi europei. D’altro canto, il rovescio della medaglia è che ciò aumenterebbe il costo dei prodotti cinesi importati, finendo per incidere sull’inflazione in Europa.

Nessuna prospettiva sembra al giorni d’oggi poter risolvere la crisi nella sua complessità. Ci sono due strade percorribili. Da una parte puntare a vendere un numero maggiore di beni sofisticati ad una classe media cinese sempre più numerosa e solida. Dall’altra, approfittare di questa fase di rincaro delle importazioni, per ripensare la nostra filosofia di consumi, troppo dispendiosa in materie prima e in energia. Ma in realtà, la scelta è più retorica che altro. Come tutti sanno, i debiti pubblici stratosferici di Europa e Stati Uniti è la Cina in larga parte a finanziarli. E bisogna sempre fare i conti con l’oste.

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