Par condicio, è una questione di stile, innanzitutto, quando si affronta la legge 28 del 2000, più nota come par condicio. Siamo agli sgoccioli della fase applicativa con il varo degli appositi regolamenti della Commissione parlamentare di vigilanza sulla Rai e dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni.
Tuttavia, nota Vincenzo Vita sul Manifesto, è sgradevole assistere (ancora lo scorso lunedì sera nel pur elegante salotto televisivo di Lilli Gruber) ad una sequela di sciocchezze su un testo che, probabilmente, non si è mai letto davvero. Eppure, sono pochi articoli – quattordici – nient’affatto segnati da qualche velleità censoria.
Si dice che fu una necessità dovuta all’assenza nella normativa di adeguate discipline sul conflitto di interessi e sulle concentrazioni editoriali. In controluce si stagliava all’epoca, in effetti, la figura di Silvio Berlusconi. Tuttavia, un articolato di quel genere era indispensabile a prescindere, tant’è che alcuni anni prima fu approvato un prequel, la legge 515 del 1993. Per non dimenticare i tempi delle Tribune politiche.
Se si vuole approfondire, si rintraccino i materiali istruttori degli appositi uffici del parlamento e – per esempio – si dia un’occhiata a The Royal Charter della Bbc. Anzi, perché in uno o l’altro dei talk in cui l’argomento è trattato a mo’ di bar sport non si invita il direttore della mitica emittente del Regno unito? E si pensa che in Spagna o in Francia o negli stessi Stati uniti non vi siano regole per le campagne elettorali?
Insomma, è una legge assai utile per rendere almeno un po’ più equo il trattamento dei e tra i diversi soggetti nel periodo della campagna elettorale, in particolar modo nel mese prima del voto. Allora non può esservi differenza in base alle proporzioni ereditate dalle precedenti consultazioni.
Tutti uguali ai nastri di partenza. Se si scorrono i punti del regolamento discusso in seno alla Commissione di vigilanza, si coglieranno alcune interpretazioni evolutive della stessa legge originaria, laddove si immagina un equilibrio spalmato su diverse trasmissioni di uguale caratteristica e si rende meno inflessibile il conteggio dei tempi delle presenze.
Tuttavia, si introduce – anche per sollecitazione di sentenze del Consiglio di Stato – un conteggio ponderato dei minuti attribuiti alle varie sigle: un minuto al Tg1 delle venti non equivale certamente a un minuto a mezzanotte e il controllo deve essere tempestivo, per potere attuare un reale riequilibrio, non rinviato magari (come avvenne in passato) al dopo voto.
La destra, con il calmiere questa volta di Forza Italia, ha provato a forzare il testo a uso e consumo del governo, escludendo le apparizioni istituzionali dal computo. Le vie di palazzo Chigi sono infinite. Ma, ovviamente, inaccettabili persino per l’ala meno estremista della coalizione. Le presenze di esponenti istituzionali vanno limitate allo stretto necessario e non è lecito utilizzare un’iniziativa ministeriale per esibirsi in una impropria propaganda.
Così, è priva di (buon)senso l’intemerata di Maria Elena Boschi che, incurante del ridicolo, ha proposto di introdurre una specifica par condicio per i giornalisti nelle trasmissioni. Ma, come si vede, lo sconfinamento nel grottesco incombe sempre.
Il comitato di redazione di Rainews, poi, ha giustamente protestato per un’ulteriore prova tecnica di regime, ovvero la possibilità di trasmettere in diretta i comizi fatta salva una scritta di testa come se si trattasse di un avviso pubblicitario o di una sponsorizzazione.
Al di là della discussione, questa sì giustissima, sulla necessità di aggiornare i vecchi dettami con l’ambiente digitale e della rete, sulla scorta di una accurata segnalazione del luglio del 2023 dell’Agcom, il problema è quello di adottare misure adeguate al monitoraggio e a fare rispettare i dispositivi, pure con mediazioni e compromessi. Dopo la Commissione parlamentare sarà la volta dell’Autorità.
PS: se non ci fosse la par condicio, esisterebbero i talk-show?
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