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Per Draghi fuori dai piedi, Berlusconi tradisce Parmalat, Gheddafi e pure Bossi

di Warsamé Dini Casali |28 Aprile 2011 10:25

Berlusconi e Sarkozy al vertice di ieri (foto Lapresse)

ROMA – Comunque andrà la vicenda Parmalat, l’Italia ci ha già perso la faccia. Forse di utile resta solo piangere sul latte versato, su un capolavoro di improvvisazione, un manifesto di impotenza che ha consegnato nelle mani di un gruppo francese indebitato fino al collo e che non pubblica bilanci da qualche anno, il gioiello restaurato dell’agroalimentare nazionale.

Lactalis, con un tempismo forse sospetto ma sicuramente risolutivo, ha messo sul tavolo i 3,3 miliardi di euro necessari per l’offerta pubblica di acquisto sulla totalità delle azioni Parmalat. Dopo aver già rastrellato il  29% con un investimento di 1,2 miliardi. Insomma una strategia aggressiva quanto si vuole, ma che almeno ha il pregio di rispondere a una precisa politica industriale. Che almeno riempie di un contenuto l’astratto concetto di francesità, qualcosa, evidentemente, di profondamente diverso dal corrispettivo geografico di italianità.

Il momento clou dell’intera operazione, lo slow-motion illuminante della debacle, avviene nella prima mattina di martedì 26 aprile 2011 a Villa Madama, Roma: protagonisti Nicolas Sarkozy e Silvio Berlusconi.

Qui si apre il giallo. In apparenza la reazione dei due uomini di Stato all’annuncio dell’opa di Lactalis è di quelle che si bevono d’un fiato. Berlusconi cade dalle nuvole, è lievemente interdetto, ma è il giorno della grande riappacificazione con i cugini transalpini e non può far altro che benedire la scalata straniera. Giudica addirittura “non ostile” l’opa di Lactalis, cioè un’opa che si prende tutto, sconfessando il frenetico immobilismo capitanato da Tremonti e dai suoi compagni di cordata.

Poiché al grottesco non c’è limite, a un metro da Berlusconi un affabile Sarkozy può mostrarsi nobilmente distaccato e interpretare sorridente la parte del campione del libero mercato: “Parmalat e Lactalis sono due gruppi privati” ha sostenuto, giurando di non essere al corrente degli ultimi movimenti.

A questo punto viene naturale il sospetto: è stata tutta una messinscena, che è servita ai due, Sarkò e Berlù, per mascherare uno scambio non alla pari per i due paesi ma certamente di grande interesse per Berlusconi: da una parte il bon bon Parmalàt, le centrali nucleari, i clandestini e il definitivo tradimento di Gheddafi (piacerà alla sinistra, ma nel mondo rafforza ulteriormente l’immagine degli italiani inaffidabili alleati), dall’altra l’assenso francese alla nomina di Mario Draghi, governatore della Banca d’Italia, alla presidenza della Banca Centrale Europea: la cosa sembra una vittoria per l’orgoglio italiano, in realtà si tratta di una assicurazione sulla vita e sulla permanenza in carica per Berlusconi, che con questa capitolazione si è tolto di torno, mandandolo a a duemila chilometri da Roma, l’unico serio credibile contendente al posto di Primo Ministro, che negli ultimi due anni non ha mai perso occasione per fare il controcanto al Governo da un pulpito importante anche per la tradizionale indipendenza dal potere esecutivo che nemmeno Mussolini era stato capac e di scalfire.

In cambio di questo, Sarkozy, in un sol colpo, al prezzo di una veloce scampagnata romana, ha visto Lactalis papparsi Parmalat in un boccone, ha ottenuto gli aerei italiani per bombardare Gheddafi, ha incassato il riconoscimento da parte di Berlusconi che nella scala Richter dello tsunami dei profughi la Francia è 5 volte più colpita dell’Italia. Senza contare le assicurazione che i contratti per la tecnologia nucleare restano validi nonostante, o più propriamente a causa, della sospensione della costruzione delle centrali. In cambio ha dovuto solamente accettare che l’italiano Mario Draghi sieda sulla poltrona di Trichet alla Banca centrale europea: un favore minimo al Paese, un boccata d’ossigeno per Berlusconi stesso che non vedeva l’ora e l’occasione per liberarsi dell’unico vero concorrente in Italia al suo potere tanto assoluto quanto inerte.

All’escursionista della domenica Tremonti, qualcuno dovrà spiegare un po’ meglio il concetto di cordata. Con quella estemporanea, improbabile messa su per contrastare la voracità di Lactalis, in montagna durerebbe poco. In questo momento, mentre ancora discute con banchieri, burocrati e consulenti, un carrozzone targato Italia che volesse pareggiare l’offerta dei francesi, dovrebbe presentarsi con un assegno di 4,6 miliardi in bocca, visto che la quotazione delle azioni Parmalat è salita di un buon 13% dopo l’annuncio dell’opa. Tra gli industriali del settore Ferrero è stata la speranza di un momento, Granarolo semplicemente non aveva la grana. Il ministro dell’Economia si è agitato, ha pontificato come è nel suo stile, ma alla fine non ha spostato di una virgola gli equilibri della partita. Protezionista contro protezionisti più smaliziati e di più antica tradizione, aveva inizialmente giocato la carta dell’italianità per escogitare un decreto ad hoc per rallentare la marcia dei francesi. Poi ha tentato di aggiornare i fasti equivoci di una nuova Iri mettendo a disposizione i capitali della Cassa Depositi e Prestiti. Infine ha cercato adesioni di banchieri disponibili, trovando nel solo Corrado Passera di Intesa l’unico anello di una catena immaginaria. Risultato Parmalat è francese: in alternativa, casomai la Lega che tiene in ostaggio Tremonti facesse la voce grossa per tutelare gli allevatori padani, si potrebbe arrivare al massimo a una soluzione tipo Alitalia. Un successone, visto che la compagna di bandiera italiana di nome, controllata da Air France di fatto, continua imperterrita a macinare debiti.

Dovremo dire addio allo yogurt di Stato sognato da Tremonti? Rassegnamoci, è così. Si rassegni, soprattutto chi crede ancora alla favola dell’italianità. L’orgoglio patriottico può far velo alla lucidità: Lactalis non è un’astronave di marziani, è una realtà già  stabilmente presente in Italia con attività che valgono 1,2 miliardi di fatturato, 3 mila dipendenti e padrona di marchi gloriosi come Galbani e Invernizzi. Non ha nessuna intenzione di rovinarsi gli affari, ha tutto l’interesse a mantenere buoni rapporti con i politici locali. Una quota di Parmalat potrebbe davvero concederla a Tremonti. Da bravi colonizzatori sono attenti a non umiliare i cacicchi delle province imperiali. Colonizzazione non è un’esagerazione, non più del fumoso concetto di italianità. Non dimentichiamo le ultime parole di Sarkozy, appena aver decantato la meraviglia del carattere e dello stile italiani. “Creiamo grandi gruppi italo-francesi in grado di competere su scala globale”: gruppi, si intende, con il piano nobile a Parigi e la  dependance di servizio a Roma, o a Parma, tanto è uguale. Il piccolo Cesare venuto da Neuilly, sobborgo della ville Lumiere, sta riscrivendo il de bello Gallico 2, la vendetta. Il Vercingetorige di Arcore ancora non lo sa,  oppure gli basta aver assistito al capitombolo di Tremonti, che sicuramente si era montato la testa mentre surrogava da Via XX Settembre la guida del Paese, trattando direttamente con l’Europa, i grandi banchieri ecc. Tremonti è ruzzolato, Berlusconi ride come a una sua barzelletta, l’Italia è l’unica colonia che bombarda una ex colonia per conto del nuovo colonizzatore.

Resta l’incognita della Germania: Angela Merkel non ha mai detto la sua sulla presidenza della Bce perché in fondo in fondo i tedeschi degli italiani proprio non si fidano e la storia li conforta. La capitolazione ai piedi di Sarkozy da parte di Berlusconi non aiuta, perché tende a sostituire all’asse Roma Berlino quello Parigi Berlino cosa che è tutt’altro che nell’interesse italiano e può solo infastidire i tedeschi.

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