ROMA – Il disegno di legge del Governo varato venerdì 23 marzo, tra le varie novità per arginare la flessibilità “cattiva” di ingresso al lavoro, punta in particolare a contrastare, se non a sradicare, il fenomeno delle partite Iva di comodo, spesso uno schermo elusivo dei datori di lavoro, per evitare di assumere in pianta stabile dipendenti che in realtà lavorano a tutti gli effetti per loro. Come è possibile che dai 15 ai 35 anni gli italiani siano all’ultimo posto nella speciale classifica di chi in Europa desidera aprire un’attività in proprio (Eurobarometro Commissione Europea) se poi le partite Iva di giovani fino a 39 anni sono 1,4 milioni, cioè il numero più alto nell’Europa a a 15 e 27. Più degli inglesi che ne contano 1,133 milioni ma con un’incidenza sugli occupati della stessa età di gran lunga minore.
E’ questo infatti il dato che fa più riflettere: nella media europea il numero di partite Iva rispetto alla totalità degli occupati nella stessa fascia di età è intorno al 7,5%: in Italia è esattamente del doppio, un 15% spiegabile con il massiccio ricorso a una modalità di rapporto di lavoro gonfiata rispetto alla sua natura. Anche tra i 40 e 54 anni siamo primi come numero di partite Iva, con un’incidenza del 16% sul totale occupati della stessa età: solo che in questo caso la tendenza a mettersi in proprio è giustificabile come scelta personale non condizionata dalla disparità con eventuali committenti.
In generale dopo la crisi i lavoratori autonomi sono diminuiti molto meno degli occupati. In totale le partite Iva sono 5 milioni e mezzo ma qui consideriamo solo gli autonomi delle professioni non regolamentate dagli ordini professionali. bibliotecari con partite Iva, addetti alle buste paga con partita Iva, insegnanti sempre con partita Iva. Il 55% degli intervistati dall’Isfol ha dichiarato di lavorare per una sola società, e quasi il 20% del campione ha persino concordato un orario di lavoro per svolgere le proprie mansioni.
Proprio questo è il punto critico che il Governo, anche forse per compensare le novità sulla flessibilità in uscita (art. 18 in primis), ha voluto prendere di mira. I paletti introdotti sono severi in quanto a capacità di circoscrivere il fenomeno della partita Iva di comodo (per le aziende): il ministro Ferrero ha parlato di contrasto “secco e severo”. Primo, verranno setacciate quelle partite Iva nelle quali il 75% dei redditi assicurati all’ “own account worker” (in inglese l’autonomi senza dipendenti) derivi da un solo committente. Secondo, la durata delle prestazioni fornite a fattura per un solo committente supera i sei mesi, sarà considerato lavoro dipendente a tutti gli effetti. Così come se l’autonomo fittizio lavora con una postazione fissa e magari è sottoposto ad orari, entrambe condizioni regolate dal datore di lavoro.
In quel caso che cosa succede? Se l’ispettore del lavoro avrà accertato la continuità nel rapporto di lavoro sulla base degli elementi appena descritti, quel rapporto sarà trasformato in contratto di lavoro subordinato con possibile recupero dei contributi inevasi. L’ispettore stesso si incaricherà di riqualificare quel rapporto mentre al committente non resterà altra soluzione che impugnare il verbale davanti a un giudice con l’onere di dimostrare il contrario. Questa linea di condotta, apprezzata anche dai sindacati perché ineccepibile da un punto di vista dei diritti del lavoro e con l’obiettivo di stabilizzare i rapporti di lavoro, mostra però qualche controindicazione.
Intanto la struttura produttiva italiana è legata a un numero enorme di piccole e piccolissime aziende: setacciarle tutte, riuscire a stanare le false partite Iva una per una, rischia di “militarizzare” ancor di più il rapporto con la macchina amministrativa. Certo il numero di partite Iva è sconsiderato, comunque esagerato, tuttavia l’obiettivo di dare maggiori dimensioni all’impresa italiana, con tutto ciò che ne consegue, non si fa dall’oggi al domani, per decreto. Inoltre la ricaduta in termini occupazionali potrebbe essere poco lieta: assumere a forza un collaboratore rischia di diventare un deterrente alle assunzioni in generale, senza contare che, in alcuni casi, è proprio il collaboratore che preferisce la Partita Iva per avere nell’immediato un riscontro economico più vantaggioso a dispetto di una regolarità contrattuale e contributiva i cui effetti sarebbero lontani nel tempo.