Alessandro Penati ha illustrato, su Repubblica di domenica18 marzo, il pasticcio swap con il suo stile secco e anche un po’ ruvido.
La perdita di 2,6 miliardi di euro con Morgan Stanley, comincia col dire Penati, era “per coprire la perdita su un derivato di cui non si conosceva l’esistenza” e della sua esistenza si è venuti a sapere per caso dall’agenzia americana, Bloomberg, c”he lo ha scoperto dai bilanci della banca”.
Seguono bacchettate al Sole 24 Ore e al Corriere della Sera; risparmiata Repubblica, ma quel che scrive Penati è un tratto di matita rossa sulla cronaca del giorno prima su Repubblica.
Infatti, si affretta a spiegae Penato, “secondo Bloomberg, chiudere i contratti non è stata una decisione del Tesoro, ma di Morgan Stanley, in virtù di una clausola (Termination clause) che tipicamente dà diritto a chiudere una posizione se la perdita della controparte, in questo caso l’Italia, eccede le garanzie e i margini stabiliti. Significa anche che, senza questa clausola, la perdita dello Stato sarebbe rimasta occulta”.
Senza tanti fronzoli, Penati osserva che “una perdita è una perdita. Se compro un titolo a 10 euro, e poi crolla a 6, venderlo non è “meno oneroso” di tenerlo, “rinnovandolo”: ho sempre perso 4 euro. Né importa se ho acquistato il titolo nel 2010 o “negli anni ’90”: continuo ad aver perso 4 euro. Dare l’impressione che questo derivato sia un retaggio del passato è ingannevole: il Tesoro ha consapevolmente deciso di tenerlo in portafoglio fino a ieri”.
Poi si passa ai rischi che ancora corriamo: “Nell’analisi dei bilanci vale il principio dello scarafaggio: se ne vedi uno, ce ne sono molti”. Per questo “bisognerebbe sapere se, come stima Bloomberg, le perdite nette dello Stato in derivati ammontino veramente a 24 miliardi di euro (presumo a prezzi di mercato):sarebbe un punto e mezzo di Pil. Ed è debito pubblico sommerso”.
Penati giustamente, ma si teme anche vanamente chiede una “informativa sulla posizione in derivati” che “dovrebbe essere estesa a tutte le amministrazione pubbliche, vista la storia dei danni che i derivati hanno fatto agli enti locali”.
Penati non perdona nemmeno la Banca d’Italia: “Perfino l’indagine di due anni fa della Banca d’Italia, peraltro occasionale, fatta a seguito dei vari scandali scoppiati nella Penisola, si limitava a censire i derivati con banche residenti in Italia. Ma è noto che il Tesoro, come altre entità pubbliche, operano direttamente con controparti estere, senza passare per eventuali filiali italiane. Dunque, era una foto, peraltro ingiallita, che riprendeva solo la punta dell’iceberg”.
Non si può dare torto a Penati quando scrive: “Credo che i cittadini italiani abbiano il diritto di sapere quale sia complessivamente l’esposizione in derivati dello Stato, e con quali banche; soprattutto perché ognuno di noi si accolla 32.500 euro di debito pubblico. La trasparenza è il primo passo. Il secondo dovrebbe essere la liquidazione di tutte le posizioni in derivati dello Stato. I derivati non vanno demonizzati: sono strumenti utilissimi per la gestione del rischio”.
Ma per uno Stato, conclude Penati, non vale. Per questo dico sì ai derivati; ma no a quelli di Stato.