Petrolio Usa, ok a export da Obama: prezzo scenderà ancora?

Petrolio Usa, da Obama ok a export: prezzo scenderà ancora?
Petrolio Usa, da Obama ok a export: prezzo scenderà ancora?

ROMA – Il Congresso Usa è vicino a uno storico accordo per cancellare il bando che da oltre 40 anni limita l’esportazione di petrolio. I leader del Congresso Usa hanno raggiunto una intesa di massima nel quadro del dibattito sul piano di bilancio Usa. Cadrebbe così un divieto che resiste ormai dal 1975, quando fu introdotto per contrastare l’impennata dei prezzi decisa dall’OPEC, in reazione al sostegno degli USA a Israele nella guerra dello Yom Kippur del 1973.

Lo scambio di Obama: più incentivi alle rinnovabili. Una decisione che impatterà ulteriormente sui prezzi del greggio già in picchiata e sceso a un terzo dei livelli di tre anni fa? “There will be blood”, come recita il titolo del film Il petroliere di P. T. Anderson?

Il Wall Street Journal sottolinea piuttosto il valore interno del “momentum”: politico, ambientale, energetico (dal punto di vista di consumatori e produttori). Fino a oggi – manca ancora la sua risposta definitiva – Barack Obama ha sempre espresso la sua contrarietà al progetto repubblicano (il partito dei produttori) di rimozione del bando, minacciando il veto.

Opposizione che è caduta come esisto di un calcolo politico intorno alla realizzazione del budget: i repubblicani, che controllano il Congresso, devono rinunciare a generosi incentivi all’industria petrolifera, non opporsi soprattutto agli incentivi destinati alle fonti rinnovabili. Non va dimenticato che il bando non è totale: un 5% di produzione finisce in Canada, con il Messico sono autorizzati degli scambi, una porzione di greggio meno nobile esce dai confini come prodotto da raffinazione.

Quale impatto sul prezzo del petrolio?  In realtà il patto è stato reso possibile proprio dal basso prezzo (purtroppo inavvertibile dal consumatore italiano quando mette benzina o paga le bollette) del greggio (brent), mentre si assottiglia sempre più lo spread con il prezzo del petrolio Usa (Wti): solo nel 2011 era di 20 dollari, oggi è a poco più di un dollaro (le quotazioni, in risalita con le voci della fine del bando, danno il Wti a 37,35$ al barile, il brent a 38,45$).

La reazione dell’Opec per ora è ispirata a una quieta indifferenza, non sono allarmati i produttori concorrenti, potenzialmente minacciati, specie i ribassisti sauditi che non accennano a diminuire la produzione e far salire i prezzi. Anche perché, va ricordato, lo shale oil ottenuto tramite fracking in Usa diventerebbe concorrenziale solo con un greggio non inferiore a 70 dollari al barile.

Il rischio non spaventa l’Opec, assicura il segretario generale Abdallah El Badri. «L’effetto netto dell’export di petrolio americano sul mercato è pari a zero», ha dichiarato da New Delhi, dove partecipava al primo Forum di dialogo tra India e Opec. «Non ci sarà alcun effetto sui prezzi perché gli Usa sono ancora un Paese importatore. Esportano un po’ di greggio, ma hanno anche bisogno di importarne da altri». Il problema, ha ricordato El Badri, è la qualità: lo shale oil è un greggio molto leggero, che non può sostituire quelli più pesanti, tuttora necessari per alcune lavorazioni. (Sissi Bellomo, Il Sole 24 Ore).

Dal Wall Street Journal è forse utile raccogliere il commento di un lettore informato, a proposito delle ricadute interne del provvedimento: grandi profitti per le compagnie di raffinazione che hanno implementato grazie a legislazioni favorevoli le vie di trasporto e non sanno dove mettere le scorte in eccesso, aumento del prezzo della benzina alla pompa, delocalizzazione verso l’estero (Messico) con danno per l’occupazione domestica: “Well, il partito big oil è al lavoro al Congresso, cosa ti aspetti, una legislazione favorevole ai consumatori? La Lousiana sarà completamente devastata, il Texas ferito”, Jack Armstrong.

 

 

 

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