ROMA – Tre fondi comuni pubblici, due immobiliari e uno mobiliare per valorizzare e quindi dismettere, vendere, asset, come si dice, ora appannaggio degli enti locali. In pratica non solo immobili, case, ville, caserme, grandi strutture, ma anche partecipazioni dentro l’universo delle utilities (energia, acqua, trasporti, infrastrutture) di comuni e regioni. E’ il piano del Governo per aggredire la montagna di debito pubblico che ogni anno grava come un macigno con la spesa per interessi. Da Berlino, dove il premier italiano riceve premi e complimenti dall’elite economica tedesca, Monti annuncia, quasi incidentalmente, che il progetto è in fase avanzata, lo ha già presentato a grandi linee all’Anci (associazione dei Comuni). Non è esattamente una novità, ogni volta che si profilano gli effetti di una congiuntura e non si sa dove trovare risorse, la vendita del patrimonio pubblico torna prepotentemente nel dibattito pubblico.
In effetti, il piano Monti, per modalità e strumenti, ricalca abbastanza fedelmente quello lanciato dal seminario di Giulio Tremonti dello scorso settembre, poco prima che gli eventi precipitassero e il piano fosse accantonato insieme al Governo Berlusconi. Non si parli di appropriazione indebita (non è la scoperta della penicillina) ma la nuova carta di Monti non è uscita da un mazzo nuovo. Comunque, onde evitare una svendita del patrimonio pubblico – gli eventuali investitori sanno che siamo obbligati a vendere – i fondi servirebbero a valorizzarlo, a renderlo più appetibile e a garantire una cessione quando sia più remunerativa. Tre miliardi e mezzo di dotazione iniziale forniranno l’autonomia gestionale per il difficile incarico assegnato ai fondi.
Il primo fondo immobiliare sarà gestito direttamente dalla Cassa depositi e prestiti, avrà una dotazione iniziale di un miliardo di euro. Il secondo fondo immobiliare sarà gestito, invece, dall’Agenzia del Demanio e avrà il compito di portare a compimento il federalismo demaniale. Il terzo sarà un fondo comune mobiliare, destinato cioè ad acquisire azioni. D’altra parte, il progetto è inevitabile se si vuol dare efficacia e attuazione alla normativa che impegna entro il 2013 i piccoli comuni (fino a 30mila abitanti) a cedere tutte le partecipazioni delle società controllate, quelli fino a 50 mila a mantenerne al massimo unsaranno i Comuni (dai quali è partita l’iniziativa), le Province e le Regioni, poi la Cassa depositi e prestiti, che rimetterà in campo anche il Fondo strategico italiano, e l’Agenzia del Demanio.
Rispetto ai predecessori, Tremonti compreso, nessuno per ora si è affannato a cercare precedenti poco lusinghieri (regalo ai privati, svendita ecc..) o complotti della finanza internazionale come la crociera del Britannia, nave regale inglese dove, secondo alcuni, fu organizzata la “rapina” del 1992, governo Amato (che comunque non superava i 50 miliardi di euro attuali). Eppure, con Tremonti, anche il compassato Sole 24 Ore tirò fuori la storia, come monito, come avvertimento certo. Forse anche per mettere in guardia dalla facilità con cui si calcolano miliardi a palate come previsioni di incasso. Il patrimonio c’è, ma non è certo una passeggiata alienarlo. Si tratta di una soluzione già sperimentata altre volte, ma ostacoli burocratici e amministrativi impediscono che si possano ottenere in breve tempo risultati dell’ordine di grandezza individuato (lo diceva anche l’economista e editorialista del Corriere della Sera Michele Salvati, inserendola tra le soluzioni “necessarie e impossibili”). 400/500 miliardi si attendeva Tremonti, il professor Monti non si è sbilanciato, ma se l’obiettivo taglia/debito è di lungo corso come ha preventivato, siamo lì. Tra i veicoli suggeriti da Monti, non c’è per ora, la “casa d’asta” immaginata nel seminari Tremonti per mettere all’incanto i gioielli di famiglia.
Però, da qualche parte andrà pur mostrata e vantata la bontà della mercanzia. Sulla lista della spesa gli investitori cercheranno di spuntare parecchie voci in lista: immobili, concessioni statali, utilities, ma anche terreni, fabbricati, caserme. Il maggior incasso il governo se lo aspetta (come se lo aspettava quello precedente, il patrimonio sempre quello è) da tre ambiti specifici: Spa controllate dagli enti locali, le società concessionarie, il patrimonio immobiliare. Un calcolo sui beni immobili e sui terreni posseduti da 11 mila amministrazioni pubbliche, locali e centrali, emerge un valore stimato in 370 miliardi circa, ma la stima (della Cassa depositi e prestiti) riguarda il 53% delle amministrazioni interessate. Sono inclusi ministeri, le Asl, le università, gli ospedali, gli alloggi Iacp, le agenzie fiscali, gli enti previdenziali, Regioni, Comuni, Province.
Più complicato il mondo delle concessionarie: Rai, Poste, Ferrovie, non sono state mai privatizzate. Snam Rete gas, Spa che distribuisce gas su concessione comunale, è già sul mercato. Ci sono società che gestiscono aeroporti, come Sea, Sagat. Qualche dismissione appare già poco percorribile. Le quote strategiche di Eni e Enel detenute dallo Stato per esempio: vendere la rete Terna potrebbe significare alienare all’estero, a un privato il controllo della rete nazionale di energia. Sulla Rai la partita sarebbe puramente politica, ideologica, stante la presa ferrea sull’azienda dei grandi partiti. Le Poste hanno un gioiello di redditività come Banco Posta, ma venderlo implicherebbe la rinuncia a una fonte finanziaria certa per sostenere i servizi postali in eterna perdita.
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