La Rai, fino a qualche anno fa oggetto e soggetto di dibattiti infiniti e di intere paginate su molti quotidiani, sembra uscita dai radar e pare avviata ad un lento declino.
È vero, nota Vincenzo Vita in questo articolo pubblicato anche sul Manifesto, che la gran parte del ceto politico suppone di aver sostituito il video con i social, immaginando bastevoli le comparsate nei talk o le interviste.
Che sia (e possa diventare) un servizio pubblico nell’età dell’infosfera non sembra argomento di riflessione. In verità, a patto di ripensare profondamente la fisionomia dell’ex monopolio, l’obiettivo di affermare la necessità di un bene comune in un universo dominato da nuovi prepotenti oligarchi tecnologici è valido persino più ora di ieri.
Mentre nella stagione che portò alla riforma del 1975 (l.103) si trattava di strappare la Rai dal controllo burocratico del governo, per affidarne l’indirizzo al parlamento, al punto di catastrofe in cui stiamo va immaginata una resistenza creativa contro la dittatura degli algoritmi. Ci aspetta un corpo a corpo tra la comunicazione intesa come arricchimento delle relazioni sociali e una plumbea omologazione alle logiche dell’istantaneità.
Ecco perché è grave che il capitolo dell’azienda di viale Mazzini sia sceso di moltissime posizioni nell’agenda delle priorità.
Una traccia tangibile del disinteresse sta nella curiosa vicenda della commissione parlamentare di vigilanza. Finalmente, a quasi sei mesi dal voto, è stata costituita, paradossalmente aumentata da 40 a 42 componenti malgrado il taglio del numero dei parlamentari.
Ma la prima prevista riunione è già slittata e tuttora non è decisa la presidenza. Quest’ultima casella fa parte, probabilmente, di complesse piccole macchinazioni. L’esito è, purtroppo, chiaro: manca colpevolmente un istituto importante per diversi iter procedurali, come – ad esempio- il percorso del contratto di servizio con lo stato.
Per non parlare della verifica della par condicio, proprio quando Giorgia Meloni e il governo hanno invaso buona parte dell’informazione radiotelevisiva. La principale testata – il tg1- fa impressione. Con l’aggiunta di Bruno Vespa.
L’arrembaggio della destra è, probabilmente, il tuono prima del temporale annunciato: la sostituzione dell’amministratore delegato Carlo Fuortes.
Voci sgradevoli attaccano Fabio Fazio, invocandone la sostituzione.. E Lucia Annunziata è finita nel mirino per aver detto una parolaccia, del resto sdoganata tanti anni fa alla radio da Cesare Zavattini. L’obiettivo delle forze reazionarie non è la violazione del bon ton, bensì la difesa acritica della ministra Roccella che domenica scorsa nella trasmissione Mezz’ora in più aveva discusso con la conduttrice sul riconoscimento dei figli delle coppie omogenitoriali.
Contraddire una rappresentante del governo non è considerato tollerabile. La raffica di dichiarazioni polemiche è un pessimo indice.
Insomma, si combinano la progressiva emarginazione del servizio pubblico e la voglia di occuparne i resti.
Non solo. Incrina ogni certezza sulle risorse disponibili l’ipotesi avanzata dal titolare del dicastero dell’economia Giancarlo Giorgetti di togliere dalla bolletta elettrica il canone di abbonamento, mentre Il bilancio della Rai versa in acque tutt’altro che tranquille.
Non è semplice capire se siamo di fronte ad una vera e propria strategia o ad un’improvvisazione mista all’imperizia. Il risultato, però, è lo stesso.
In generale, la vecchia televisione generalista si sta dimostrando impreparata nei confronti del capitalismo delle piattaforme. Tale situazione di debolezza penalizza in particolare la Rai, visto il sovraccarico di obblighi che ne connota ruolo e fisionomia.
Una domanda è doverosa: che fine hanno fatto le presunte intenzioni riformatrici esibite nei giorni della campagna elettorale? È evidente l’urgenza di mettere mano, prima che sia troppo tardi, alla collocazione nel sistema della Rai.
Riprendere il filo innovatore (interrotto varie volte) dello sganciamento dai vari poteri del servizio pubblico, attraverso la costituzione di un’autonoma e indipendente fondazione cui conferire la proprietà è un imperativo morale oltre che politico e culturale.
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