Renzi, cuneo fiscale. Taglio Irpef subito, Irap stand-by: costi, pro e contro

di Redazione Blitz
Pubblicato il 11 Marzo 2014 - 12:06 OLTRE 6 MESI FA
Renzi, cuneo fiscale. Taglio Irpef ora, Irap stand-by: costi, limiti, esami

Renzi, cuneo fiscale. Taglio Irpef ora, Irap stand-by: costi, limiti, esami

ROMA – Renzi, cuneo fiscale. Taglio Irpef subito Irap stand-by: costi, limiti, esami. Ultime ore per il Governo Renzi per la messa a punto della riduzione del cuneo fiscale senza oltrepassare le colonne d’Ercole del 3% (deficit/Pil): 10 miliardi a rischio copertura, suspence sulla destinazione finale visto che non è ancora chiaro se la misura andrà tutta al taglio dell’Irpef (come scommettono i quotidiani) o sarà modulata in funzione del taglio dell’Irap (70% all’ e 30% all’Irap quest’anno e viceversa per il prossimo, è un’ipotesi in campo).

Derby Irpef-Irap. Anche oggi il leader di Confindustria Giorgio Squinzi, con una lettera aperta al Corriere della Sera, ha chiesto al Governo di tagliare l’Irap per diminuire il costo del lavoro alle imprese aumentandone la competitività e favorendo l’occupazione (“chiediamo agli italiani se vogliono un lavoro o qualche euro in più”). Sul fronte opposto Carlo De Benedetti, secondo cui data l’esiguità delle risorse “meglio scegliere l’Irpef” per riaccendere i consumi e dar respiro alle aziende che non esportano, le più colpite dalla crisi.

Coperture: tagli, da chi si parte? Il percorso virtuoso per un taglio consistente delle tasse su cui vigilano le istituzioni europee parte da un taglio corrispondente della spesa pubblica. Taglio che deve essere strutturale e che sconsiglia provvedimenti estemporanei tipo una tantum. 2/3 miliardi sono già disponibili, dal taglio alla spesa pubblica devono arrivare 5 miliardi (considerando però che gli effetti della spending review si distribuiranno nell’arco di almeno un paio d’anni), tre miliardi in meno sono contabilizzati per il minor costo degli interessi sui titoli di stato. I capitoli di spesa da aggredire sono molti e l’impenetrabilità del Governo sulle scelte autorizza diverse congetture, più o meno percorribili.

Per esempio si è tornati a discutere di una sforbiciata alla spesa per gli F-35: attualmente siamo impegnati per un esborso di  14,3 miliardi per i prossimi 15 anni. Il rientro dei capitali all’estero è un’altra voce. Resta valida l’opzione di incrementare la tassazione sulle rendite finanziarie. Poi una ulteriore cura dimagrante per le auto blu e grigie di ogni amministrazione. Così come l’intervento di potatura sulle 7 mila aziende partecipate degli enti locali. Sarebbe stata scartata l’idea di intaccare la dote di 1,5 miliardi di incentivi alle imprese. Resta attuale l’ipotesi di sfoltire le pensioni di reversibilità, di imporre un tetto reddituale per accedere all’indennità di accompagnamento (entrambe le voci previdenziali costano 40 miliardi di euro l’anno).

Perché Irpef no, perché Irap no. Da un punto di vista culturale, si scontrano diverse “ideologie” sul terreno del taglio al cuneo fiscale. Il problema principale, sembrano tutti concordare, è il sostegno alla domanda interna, oggi ai minimi termini per effetto della perdita di un quarto della produzione industriale in questi anni di crisi da una parte, per la nulla propensione agli acquisti dall’altra. Chi dice “tutto all’Irpef” (per esempio i 100 euro in più in busta paga sotto i 15 mila euro di reddito) è convinto che sia l’unica soluzione per far ripartire i consumi (sotto una certa soglia si alza la propensione agli acquisti). E’ convinto poi che dare un po’ più di soldi alle imprese non significa automaticamente che queste li spendano in investimenti creando nuova occupazione (potrebbero invece consolidare i bilanci approntando le scorte necessarie, distribuire i dividendi dei maggiori utili, ecc…)

L’opzione contraria non è solo quella di Squinzi. Federico Fubini sul Corriere della Sera segnala la prospettiva dall’osservatorio di Bruxelles: ridurre l’Irpef darebbe un po’ di ossigeno alle famiglie ma seppure i dieci miliardi fossero spesi integramente, un terzo verrebbe destinato all’acquisto di prodotti stranieri. La ricetta è sempre la stessa: riforme strutturali per competere sul mercato globale dove il made in Italy perde terreno. E non c’entra l’euro, visto che il decremento maggiore si ravvisa nella zona euro.