Si sgonfia al Senato la Banca del Sud, si gonfia al governo la voglia di condoni

Pubblicato il 13 Novembre 2009 - 17:54 OLTRE 6 MESI FA

Schifani con Gasparri e Quagliariello

Schifani con Gasparri e Quagliariello

La Banca del Sud si è già fermata, ancor prima di arrivare ad Eboli… Si è fermata sulla soglia dell’aula di Palazzo Madama, non poteva entrare: lo ha annunciato dolente, “a malincuore” e quasi scusandosi con Tremonti il presidente del Senato Schifani. Non poteva varcare l’uscio dell’aula dove le parole e gli annunci diventano leggi e cose concrete perchè, per votare e far nascere una Banca, oltre alla volontà del ministro e del capo del governo, quel “capriccioso” del Parlamento ha la regola di sapere cosa c’è dentro e se c’è dentro qualcosa in quella Banca. Il Senato non lo sa, in Commissione, dove si vede cosa è e quali soldi nella Banca ci sono, la Banca del Sud non c’è mai stata. E la regola vuole non la si possa infilare come un wurstel nel panino di una legge che parla d’altro. Il “metodo salsiccia”, che pure tanto piace, non sempre si può adottare.

Era, sarebbe ancora la Banca del Sud quella Banca che finanzia piccoli investimenti sul territorio, cosa che secondo Tremonti le grandi banche private non fanno. La Banca del Sud lo farebbe perché benedetta, assistita e sponsorizzata dal governo che le darebbe in dote la garanzia di poter emettere e pagare interessi del cinque per cento sui suoi bond. Chi li compra prende il cinque, garantisce lo Stato.

Ma con quali soldi? Si vedrà se ci sono, la Banca del Sud salta un giro. Si sa invece che di soldi in cassa per lo Stato ce ne sono sempre meno. Le entrate fiscali sono ufficialmente calate del 3,3 per cento, otto miliardi circa su 280. Per i conti pubblici di fine anno si parte dunque da meno otto. Anzi meno undici calcolando il rinvio del pagamento dell’acconto di novembre concesso ai contribuenti, soprattutto lavoratori autonomi. Tre miliardi e passa che si pagano a giugno 2010 invece che a novembre 2009. Serviranno per i regali di Natale ? Comunque meno otto, meno tre: fa meno undici. E la “lista della spesa” presentata dalla maggioranza e dai ministri a Tremonti, spesa necessaria anche per non “turbare” gli elettori di marzo, varia da un massimo di 30 a un minimo di 15 miliardi. Diciamo quindici da spendere, facciamo dieci in omaggio al “rigore finanziario”. Dieci in più da tirar fuori, undici in meno che entrano.

Sull’altra colonna i quattro, cinque, sei miliardi che arrivano dallo scudo fiscale, cioè dal condono per evasione fiscale con trasferimento dei soldi all’estero. Ne mancano ancora quindici, almeno quindici. Come si fa? Si pensa, anche se si nega di pensarlo, di fare come sempre. Un condono previdenziale e uno fiscale. Sono circa 250 i miliardi di tasse e contributi evasi. Se solo un quinto “emerge” e se si fa pagare un’aliquota del 20 per cento sull’emerso, fanno dieci miliardi. Ci si può stare, è un conto che sta ingolosendo il governo.

Sarebbe anche, a ben guardare, una grande riforma. Una grande riforma delle aliquote. Invece del 37 per cento circa che grava sulle imprese o del 33 per cento circa che pesa sui salari o del 40 e passa che pagano quei pochi pazzi che dichiarano più di centolima euro annui di reddito, ecco le nuove aliquote. Cinque per cento da pagare se ti sei preso il disturbo e la fatica di evadere portando i soldi all’estero. Venti per cento o anche meno se sei stato pigro e hai evaso restandotene comodo a casa. Certo, riforma non per tutti. Non per quei 15/20 milioni di salariati e stipendiati con “trattenuta alla fonte”. Ma qualcuno, forse Brunetta, potrebbe spiegare che devono essere contenti anche loro, infatti se non si fanno i condoni i “non condonati” chiudono baracca e burattini e salariati e stipendiati perdono salario e stipendio. Quindi una grande riforma e pure “sociale”, anzi un po’ di sinistra. Chi non paga le tasse finalmente contribuisce alla ripresa con un’offerta, chi paga le tasse conserva il posto, Menenio Agrippa non avrebbe saputa raccontarla meglio.