Fortemente raccomandato ma per nulla incentivato. Metà dei dipendenti pubblici e tutti quelli che possono nel settore privato lavorano ormai anche da mesi a casa e da casa, utilizzando pc e connessioni, metri quadri e pasti.
Ma chi paga per lo smart working? Una norma c’è, ci sarebbe, ma lo spazio lasciato all’interpretazione è enorme e di fatto non ci sono regole. A causa della pandemia di Coronavirus da marzo scorso milioni di italiani hanno visto stravolta la loro vita lavorativa.
Sempre più smart working ma…chi paga?
Sempre meno ufficio e sempre più smart working, lavoro da casa. Una rivoluzione che non riguarda evidentemente tutte le categorie e non tutti allo stesso modo ma coinvolge, ad esempio, un lavoratore su due del settore pubblico. E che si tratti solo di alcuni giorni (smart working in cui il lavoro da remoto si alterna con la presenza in ufficio) o di tutti quelli lavorativi (telelavoro), le problematiche e i costi sono sostanzialmente gli stessi. In primis gli strumenti.
Cosa serve per lavorare da casa
Per lavorare servono un computer, fisso o portatile, e una connessione. In alcuni casi poi anche una stampante o uno scanner e altri supporti digitali. Ma, pur limitandosi al minimo indispensabile, già la lista dei costi si comincia a formare. Servirebbero poi penne, matite e fogli, che incidono poco nel conto ma fanno comunque volume, e servirebbe una sedia ergonomica sopratutto. Serve poi una scrivania e più in generale lo spazio.
Già lo spazio: 5 mq quelli che sarebbero mediamente necessari per una postazione di lavoro. Vero che si può lavorare dal salone o dal tavolo dalla cucina, meglio dallo studio per chi lo ha. Non sembra quindi un costo vivo ma anche, e anzi soprattutto, proprio lo spazio è un costo perché chi lavora da casa, di fatto, cede una parte della propria abitazione al datore di lavoro.
Cosa risparmia il datore, cosa risparmia il dipendente
Datore di lavoro che risparmia, di contro, su bollette e su tutti i costi che riguardano la gestione di un ufficio. E, in prospettiva, potrebbe tagliare anche i costi di affitto traslocando in maniera permanente il lavoro a domicilio
. Mentre il lavoratore, è altrettanto vero, risparmia denaro e tempo sul fronte spostamenti. Meno benzina, meno usura del proprio mezzo o meno abbonamenti ai trasporti pubblici.
E poi ci sono i pasti, in ufficio si ha il ticket o la mensa, a casa si attinge dal proprio frigo. Le auto di servizio e vari altri benefit che non sono retribuzione ‘ufficiale’ ma che nell’economia di ogni lavoratore o quasi esistono. E pesano.
A marzo ci si mosse per emergenza ed in emergenza, autorizzando la migrazione verso lo smart working in deroga alle regole precedentemente pensate, senza necessità di passare per gli accordi tra azienda e ogni singolo lavoratore, in modo da ridurre le occasioni di possibile diffusione del virus il più rapidamente possibile.
Quali sono le norme attuali
Ma delle norme c’erano, e anzi ci sono. La legge che regola lo smart working risale al 2017 ed è la numero 81 di quell’anno. “In base a questa norma il datore di lavoro non ha espresso obbligo di fornire gli strumenti di lavoro, deve però garantirne la manutenzione”, spiega al Corriere della Sera Cesare Pozzoli, partner dello studio legale milanese Chiello-Pozzoli.
Nessun obbligo di fornire pc e altro e così ci si muove per singoli casi, con aziende che forniscono il lavoratore di tutto, dalla sedia al computer passando per la luce da tavolo, ad altre che non forniscono nulla. E lo stesso vale pressoché su tutte le altre fattispecie citate. I buoni pasto c’è chi li da anche a chi è a casa e chi no, le sedie c’è chi le fornisce, chi mette in campo convenzioni per farle avere a prezzi più contenuti e chi non fa nulla e così via elencando. Di fatto senza regole e con ogni caso diverso dall’altro. (Fonte Corriere della Sera)